La produzione dello spazio nella transizione
Se tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, tra partenza e arrivo non è in gioco solo una semplice traversata. Il rischio della dissoluzione della storia nella società liquida
a cura di Alberto Caspani
Anziché mostrare un passaggio, la transizione rivela una cecità. A volte, per accorgersene, basta un cartello di deviazione lungo il tragitto, altre è necessario perdere completamente la strada. Chi avanza in vista di un obiettivo, infatti, deve incorrere spesso in un evento inaspettato per prestare di nuovo attenzione a cosa stia accadendo fra un passo e l'altro. Ma ciò di cui si accorge poi è lo stesso di quanto avrebbe potuto notare prima?
Se un simile dubbio comincia a insinuarsi negli automatismi quotidiani, significa che la filosofia è capace ancora di abitare gli interstizi dell'utile e del superfluo. Significa che non ha bisogno di aule affollate, salotti di tendenza o processi politici per giustificare il suo eterno ritorno. Si fa spazio da sé minando certezze, ma lasciando anche intravvedere l'alba di un nuovo mondo. La filosofia vive al limite della transizione, senza appartenerle necessariamente.
Impossibile, altrimenti, spiegare perché in Cina siano stati costretti a coniare ben due neologismi attraverso il giapponese, nel tentativo di tradurre il significato che noi indoeuropei finiamo per attribuire proprio alla transizione: niente più e niente meno che un "fra", dispiegantesi da un punto di partenza a un punto di arrivo. Un accadere tanto fuggevole quanto nebbioso, che riteniamo però di poter cogliere nella sua intrinseca dinamica, in ciò che affetta nell'inevitabile transitare, rivelando in questo modo un debito quasi del tutto rimosso verso la fisica di Aristotele.
Che sia toccato al Paese del Sol Levante rilanciare un inaspettato ponte con l'opposta costa del continente asiatico, nel XIX secolo, non è casuale. Karl Marx ha speso pagine notevoli nella prefazione a "Per la critica dell'economia politica", così come nel "Il Capitale", per mostrare come processi produttivi e conseguenti modelli di sviluppo contribuiscano a plasmare categorie di pensiero altrimenti inconcepibili: stando alla vulgata del materialismo storico, proprio perché il Giappone divenne il primo Stato in Asia a emulare le potenze occidentali sotto il profilo economico, conseguentemente fu in grado di vedere e pensare "quasi" allo stesso modo degli europei.
A distanza di tanti anni, però, il dubbio resta: di che cosa parlano esattamente Occidente e Cina, quando fanno riferimento alla transizione? E' possibile permanga fra loro - ma anche col Giappone o con tutte le nazioni evolutesi altrimenti da noi - un'incomprensione di fondo talmente radicale, da pregiudicare e distorcere il futuro stesso dell'economia globale, o addirittura della specie umana?
Indicazioni, nient'altro che indicazioni
Sul fronte occidentale, a ben guardare, non tutto è così chiaro e scontato come potrebbe supporsi. Se ne è accorto anche Eric Leed, nel suo saggio "La mente del viaggiatore" (Il Mulino, 2007). "Sembra che si possano narrare le alterazioni delle modalità e dei ritmi del movimento, le sue vicissitudini, ma non il movimento stesso" (p.74). A tal proposito riporta uno stralcio del diario di William Dampier, privateer inglese del Settecento di cui l'omonima penisola australiana testimonia ancora gli audaci viaggi commerciali.
"Verso le dieci di sera entrammo a circa sette leghe sopravento dal capo Passado sotto l'Equatore, e poi il mare fu calmo; ci mettemmo a navigare a cappa, affaticati dalla giornata precedente. Il diciottesimo giorno avemmo poco vento fino al pomeriggio e poi ci dirigemmo sottocosta verso Nord, con il vento da SSO e tempo sereno"
Dampier 1906, p.34
Il diario non fa che fissare punti di riferimento, ma nulla dice dello spostamento in sé. Delle inquietudini della fenomenologia husserliana non ha sentore alcuno. Oggi la transizione è arrivata ad abitare ogni nostro discorso, lo permea, lo struttura, lo condiziona sino a interferire con l'identità dei corpi, rispondendo ancora una volta con un inquietante silenzio a chi chieda lumi sul come e sul dove. Molto più comodo tagliar corto e appellarsi al jolly retorico del "Nulla sarà come prima", espressione che tanto piace alla liquidità del neoliberismo, ma del tutto inutile per venire a capo del problema transizione.
La nostra idea a riguardo tende a passare troppo facilmente da uno spazio vago a un tempo certo. Scarto ardito e per nulla innocente, perché tiene fede solo alla metà del suo descrivere "un'azione di transito": l'effetto compiuto, anziché in divenire. Il tempo astratto, anziché lo spazio mutevole. Scritta addirittura con la t maiuscola, la Transizione di cui oggi parliamo pare proprio avere una fretta matta di passare dalla partenza all'arrivo: non dispiega il movimento, non fa gesto, ma allude a un periodo di tempo in cui il movimento è già passato dal prima al poi. Da uno stato all'altro. Dall'era degli idrocarburi a quella delle energie rinnovabili, con buona pace di John Lennon quando cantava "Life is what happens to you while you're busy making other plans". O degli improvvisi blackout che, prima o poi, dovrebbero aprirci gli occhi, spingendo a capire meglio il modo di pensare di popoli non ancora piegati all'ortodossia della scienza occidentale.
Lo storico faccia a faccia fra Paese del Sol Levante e Celeste Impero, alle prese con la traduzione di concetti per noi quasi scontati, è cruciale per mettere in luce una primo paradosso: nonostante l'assonanza fra il giapponese jikan e il cinese shijian, o fra kûkan e kongjian, i neologismi coniati per intendere il pensiero degli occidentali si rivelano ben altro che monetine di facile corso. Se non dovessero suonare familiari, conviene memorizzarli in fretta: shijian significa "fra momenti" e sta per il nostro "tempo", kongjian significa invece "fra vuoto" e sta per il nostro "spazio". Sì, proprio così. Sino agli inizi del XX secolo, in Cina non esistevano nozioni oggettive di "tempo" e "spazio". Stando al vecchio dizionario bilingue Yinghua Dacidian di Yan Huiqinq, la prima comparsa di shijian daterebbe appena 1908. Kongjian pare sia entrato in uso a stretto giro, proprio per la stretta correlazione concettuale che intercorre fra tempo e spazio.
Ammettiamolo. Invertendo l'espressione, "spazio e tempo" suonerebbero decisamente meglio alle nostre orecchie, ma qualsiasi trappola pare poco più di un ciuffetto d'erba, prima di cascarci dentro. Non a caso qualcuno continua a sospettare che le due nozioni non abbiano veramente attecchito nell'ex (?) Celeste Impero. L'irriducibile alterità della vita e della politica cinese ne sarebbero il segno più manifesto.
A dispensare chicchi di serenità è intervenuto il sinologo François Julienne, prezioso compagno di questo bizzarro cammino a Oriente.
"Tale traduzione risulta appropriata in quanto riprende al meglio un elemento assolutamente determinante nella concezione del 'tempo' sviluppata nella nostra antichità, ossia la sua percezione a partire da due distinti istanti che limitano - come estremi - un determinato lasso di tempo: il 'fra' (metaxu in greco antico, ndr) il punto di partenza e quello di arrivo del movimento che separa il 'prima' dal 'dopo'. E' proprio a questo intervallo (diastema) che fanno riferimento gli stoici nella definizione del tempo, contrapponendolo alla formula aristotelica del 'numero' del movimento, che già lo implica"
François Julienne, "Il tempo", Luca Sossella Editore 2012, p. 37.
Inevitabile, dunque, tornare a Stagira. Tutto ruota attorno a un'idea per noi talmente evidente, che riesce davvero impossibile pensare non abbia sfiorato i cinesi nel corso della loro millenaria civiltà: quella di un punto di partenza che, per computo del tempo, fissi un "a partire da". "Sentimus intervalla temporum", avrebbe riconosciuto lo stesso Agostino, che tanto questionò sull'esistenza del tempo. "E tuttavia, Signore, noi abbiamo coscienza degli intervalli di tempo (...) è proprio l'intervallo che separa un inizio dalla fine che misuriamo" (Agostino, "Le Confessioni", XI, 16).
Forse ci siamo! Il futuro Santo d'Ippona utilizza una parola che ad Aristotele piace moltissimo: misuriamo. Aristotele misura tutto: i passi, i lati dei triangoli, le zampe dei tridattili, le virtù. In una parola, il mondo, la natura, che gli antichi greci chiamavano però physis, da cui la nostra "fisica". Grazie al suo occhio indagatore, lo Stagirita si rivela a tutti gli effetti il primo scienziato della storia occidentale e lo dimostra inevitabilmente nel suo modo di pensare: arriva a concepire la natura attraverso il movimento (kínesis), ma il movimento riesce a essere catturato davvero - al suo sguardo - solo quando è possibile osservare lo spostamento da un punto all'altro di un luogo; come misurarlo, dunque? Pensando a un segmento divisibile che ha per estremi l'inizio e la fine: il tempo, attraverso lo spazio.
Agli occhi di un cinese, però, la soluzione individuata appare alquanto riduttiva: anziché mantenere lo sguardo sul fluire costante della vita, sul movimento dell'intero universo, Aristotele tende a focalizzare l'attenzione sul movimento delle stelle, poi degli animali e degli uomini, quindi dei singoli corpi, sganciandoli progressivamente da ogni supporto cosmico per definirne infine la forma più astratta e universale. La frazione, il numero che scandisce il prima e il poi.
"Ciò perché il tempo in relazione allo spazio - evidenzia ancora Julienne - è più facilmente rappresentabile: secondo la traiettoria di un mobile che si muove da un punto all'altro, in quanto lo 'spostamento locale' (phora) è il principale, e il più tipico, dei movimenti. Per prendere coscienza del tempo, sarà quindi sufficiente considerare due punti successivi del movimento e, di conseguenza, del tempo che lo 'accompagna'. Impossibile in un solo istante; la percezione del tempo coincide con quella dell'intervallo"
François Julienne, ibidem, p.15.
Da una passeggiata peripatetica a disegnare sulla lavagna "E = mc2" è un attimo. Nonostante la teoria della relatività o la meccanica quantistica abbiano permesso di compiere balzi evolutivi straordinari rispetto alla fisica dell'antica Grecia, da allora la mente occidentale non ha comunque smesso di pensare il tempo attraverso lo spazio. Semmai ha operato per ridurre drasticamente il contenuto della dinamica di Aristotele, una teoria generale del mutamento che comprendeva il moto locale, il mutamento qualitativo, il mutamento quantitativo, nonché il mutamento nella sostanza (generazione e corruzione). Questa è la ricostruzione storica suggerita da Paul Fayerabend nel suo incendiario saggio "Contro il metodo" (1975), nel quale riconosce a Galileo Galilei la straordinaria capacità suasoria di aver messo fuori gioco il senso comune scientifico dei suoi contemporanei "aristotelici", rifacendosi abilmente alla tradizione trascurata del pitagorismo. Primo, grande - ma soprattutto astuto - atto della rivoluzione scientifica.
"La dinamica di Galileo e dei suoi successori si occupa solo della locomozione, tutti gli altri tipi di moto sono messi da parte con l'osservazione (dovuta a Democrito) che il moto locale potrà infine comprendere tutti i moti".
Paul Fayerabend, "Contro il metodo", 1975, p. 131
Rappresentando lo scorrere della vita sopra una linea, la linea stessa è diventata - da Aristotele in poi - il metro divisibile mediante cui dedurre una serie di proprietà geometriche e matematiche che definiscono il tempo. L'aspetto ancor più intrigante è che questo modo di pensare non è stato esclusivo dell'Occidente; altri popoli e culture sono pervenuti a soluzioni analoghe, salvo poi rigettarle in quanto "riduttive". La corrente cinese dei moisti, alternativa ai confuciani e sensibile a uno studio più "oggettivo" dei fenomeni naturali, pensò ad esempio il tempo e lo spazio senza far riferimento alla distensione del movimento, bensì alla durata. Nella lingua cinese esiste infatti l'idea di "durazione" (al zhou, circolo, dello yu zhou - universo - è sostituito jiu, la cui nozione grafica è quella di un uomo che tende la gamba per percorrere una certa distanza), rispetto alla quale è la continuità del corso a prevalere sul quadro degli eventi.
Con le parole dei moisti: la durata riempie i differenti momenti/lo spazio riempie i diversi luoghi (Canone, cit., a, 40-41).
Eppure furono gli stessi moisti a rigettare la "durazione" da loro concepita, reputandola del tutto irreale: "non è la durata, ma la non-durata del momento ad affiancarsi allo spazio e a risultare a esso compatibile. - fa notare ancora Julienne (ibidem, pp. 35-36) - E' infatti in ogni singolo momento che la totalità dello spazio è presente, mentre il resto della durata è assente: è il momento a essere coestensivo allo spazio, non si può avere allo stesso tempo lo spazio e la durata".
Ciò che si rivela nello spazio, essendo differente in ogni momento, non può essere "astratto" e "replicato" in modo analogico nel tempo. La cosiddetta "linea del tempo", da questo punto di vista, è una rappresentazione tanto illusoria quanto assurda: al posto di corpi individuali in movimento, i cinesi hanno invece visto fattori in correlazione che si costituiscono in polarità (l'interazione delle energie yin e yang, che dal punto di vista fisico si prestano assai meglio a spiegare il movimento in termini di modularità e di magnetismo, anziché per atomi e particelle). Questo significa pensare la realtà in termini di "influenza" e "trasformazione regolata", di "processo", differentemente dal nostro spazio-tempo. In virtù del movimento distensivo diviene per noi possibile pensare una continuità del tempo che, portata ai suoi limiti, induce a presupporre un'eternità temporalmente meta-fisica, al di là cioé di quanto è materiale e deperibile (eternità che Platone, ad esempio, esplica attraverso la contrapposizione fra idea immutabile, dunque eterna e archetipica, e copia-mutabile del mondo fisico). Posta questa fondamentale distinzione, diviene anche possibile comprendere perché il tempo nasca in concomitanza con l'atto creativo di Dio (dal punto di vista ebraico-cristiano), o perché sia implicito nella caduta dell'Essere che si mette in moto per un fine (dal punto di vista neoplatonico-plotiniano, ma anche della gettatezza dell'Esser-ci, di cui parla Heidegger).
Se dunque non è lo spazio l'origine prima (o quanto meno unica) del tempo, da dove nasce l'effettiva pensabilità di quest'ultimo? Perché è stato possibile pensare da una parte la "perennità" come astratta e assoluta "eternità", dall'altra come "costanza" immanente al mutevole? Che cosa ha spinto verso una contemplazione (theoria) dell'immutabile implicante il suo darsi come eterno, in alternativa al funzionamento di una correlazione che si manifesta nella viabilità del processo?
Una risposta dirimente, per la quale sarebbe necessario un ulteriore e complesso percorso genealogico, può essere la "coniugazione". A differenza della lingua cinese, che non coniuga, le lingue indoeuropee distinguono un tempo passato, un tempo presente e uno futuro. Lo possono fare perché sono dotate di elementi grammaticali che permettono di sostantivizzare l'è denotativo dell'esistenza (quella è una mela gialla, quella è una mela verde...), nell'è del perennemente essente: l'essere, il ritaglio del divenire che assurge alla divina potenza dell'assoluto (cioé dell'ab-solutus, dello sciolto, del distaccato. La mela, forse, del peccato originale. La sua idea oggettiva).
"Invece di ricorrere al presente, al passato o al futuro, e dunque di scegliere fra essi, il cinese, privo di desinenze, si esprimerebbe, nei nostri termini, in una sorta di "infinitivo": si percepisce la consapevolezza di ciò che "viene" o "va", secondo la definizione tradizionale cinese del "passato-presente", ma più sulla modalità della continua transizione, a carattere processuale, che su quella di un'opposizione dall'effetto temporalizzante"
François Julienne, ibidem, p. 24
A differenza dalla paratassi cinese (che si basa sulla giustapposizione di ideogrammi), la sintassi istituisce ordine grazie all'isolamento di uno spazio a partire dal quale il movimento si rende visibile in funzione di una prospettiva privilegiata. La lingua - e non il linguaggio in senso lato - sarebbe per noi l'origine che consente al tempo di dispiegarsi da un là a un qua, attraverso la sintassi. E' ancora Paul Fayerabend a offrire un'acuta sponda al suggerimento di Julienne, mostrando in "Contro il metodo" l'irriducibile differenza fra lingua e modo di rappresentare dello stile arcaico greco rispetto all'avvento del "concetto" nel periodo pre-classico. Proprio come nella tradizione cinese, lo stile arcaico greco delle ceramiche o dell'epica omerica si basa sull'aggregazione paratattica, nella quale gli elementi di tale aggregazione ricevono uguale importanza e l'unico rapporto esistente fra loro è quello della sequenza: non c'è alcuna gerarchia, nessuna parte viene presentata come subordinata e determinata da altre.
"L'uomo arcaico manca di unità 'fisica', il suo 'corpo' è composto da una moltitudine di parti, membre, superfici, connessioni: e manca di unità 'mentale', la sua 'mente' è composta da una varietà di eventi, alcuni dei quali non sono neppure 'mentali' nel nostro senso e abitano il corpo-marionetta come componenti aggiuntivi o vi vengono introdotti dall'esterno. Gli eventi non sono plasmati dall'individuo, ma sono disposizioni complesse di parti nelle quali il corpo-marionetta viene inserito nel punto più appropriato" (Paul Fayerabend, "Contro il metodo", Feltrinelli 2021, p.202)
E' l'enumerazione delle parti, attraverso l'elenco, che diviene qui indizio di conoscenza, senza alcuna necessità di connetterle a sistema per afferrare un'essenza dietro quanto ci mostrano i sensi. L'uomo appare perciò un centro di scambio di influenze, più che una sorgente unica di azione, un "io". Solo quando inizierà a palesarsi un conflitto fra osservazione e attesa, le visioni in sequenza cominceranno a essere raccolte in nuove molteplicità capaci di modificare le classificazioni in vigore. La memoria diviene il primo punto privilegiato di osservazione nel momento in cui l'uomo compie un passo indietro, un movimento retrogrado che ha però il potere di rivoluzionare la sua conoscenza.
Il comodo reticolato dello spazio-tempo
E' dunque questo il principio che porta ad affermare che "nulla sarà come prima"? Certo appare una delle possibili ragioni, perché alla base dell'esclusione del prima rispetto al dopo, o meglio del là rispetto al qua, sta indubbiamente l'istituzione dell'ordine. Per ora conviene accontentarsi di un primo punto di riferimento. Il peccato originale della cecità che, storicamente (e non di rado drammaticamente), ha diviso l'Occidente da altre culture tradizionali, risulterebbe ascrivibile al modo in cui continuiamo a pensare lo spazio e il tempo secondo quanto stabilito da Aristotele, per poi essere sancito con impeccabile rigore da Immanuel Kant nella "Critica della Ragion Pura". Almeno per quanto attiene la nostra dimensione quotidiana.
"Noi ci riferiamo allo spazio e al tempo - osserva in merito Giovanni Maddalena in "Filosofia del gesto" (Carocci Editore 2021, p. 25) - come a enti unici e determinati all'interno dei quali la nostra intuizione va a cogliere quegli oggetti che poi le nostre categorie misurano. In termini ancora più semplici, e utilizzando qualche metafora, la matematica e le altre scienze funzionano perché il nostro sistema conoscitivo delimita una scacchiera (tempo e spazio trascendentali) dove poi può finalmente muoversi sapendo quali parti designare per giocare un gioco o l'altro".
Ancor più in breve: (sup)posto un piano spazio-temporale unico (il famoso piano x-y cartesiano, al suo interno mettiamo in opera uno schema tutto-parti correlato alla deduzione logica dei sillogismi coniuganti. Gli "a priori" della mente kantiana - lo spazio e il tempo cui ci riferiamo come condizioni possibilitanti (i cosiddetti "trascendentali") - sono inestricabilmente connessi a una tecnica espressiva che consente di oggettivizzare il flusso della realtà: il linguaggio alfabetico. Un logos gestuale-orale-scrivente che, senza darlo a vedere, tende a occultare la dinamica euristica e significante del corpo.
Non c'è battere senza levare
Occorre compiere allora un ulteriore passo indietro. "Se c'è movimento, c'è ritmo; - fa notare Carlo Sini in "Dal ritmo alla legge" (Jaca Book 2019, p. 33) - ovvero: se qualcosa accade, il ritmo era già là. Osserviamo il ritmo all'opera in un'esecuzione musicale: il maestro segna il tempo con la bacchetta: battere/levare. I due momenti si susseguono essendo uno la condizione dell'altro: come potrebbe esserci il battere senza il levare (e viceversa)? Ma se il battere è uno, la sua precondizione è due (paradossalmente "prima" dell'uno). C'è una provenienza che è sempre da togliere (da levare, appunto), semplicemente ri-battendola. Un togliere che, così facendo, cioè venendo meno, anche conserva: ri-batte, batte l'uno di nuovo. Ciò che accade e transita è in tal modo sempre segno di un altro: il battere del levare, il levare del battere. Ciò che accade non è un fatto (come opina il senso comune, magari pensandolo "in sé"), ma è un due che allude all'uno dell'origine, di cui l'uno del battere sarebbe la conseguenza e la replica, cioé un due".
Un nuovo paradigma del giudizio
Il modo di conoscere dell'uomo parrebbe scandito dal ritmo. Non a caso Giovanni Maddalena sostiene la necessità di riconoscere al giudizio un struttura tripartita, anziché bipartita: "il giudizio (e il ragionamento) sintetico è un tipo di giudizio (e di ragionamento) che riconosce l'identità di un cambiamento; il giudizio (e il ragionamento) analitico è un tipo di giudizio (e di ragionamento) che perde l'identità in un cambiamento; il giudizio (e il ragionamento) vago è un tipo di giudizio (e di ragionamento) che è cieco all'identità di un cambiamento." (ibidem, p. 29).
Il primo ci permette di stabilire un'identità fra A e B in virtù dell'analogia (o meglio ancora, del processo di metaforizzazione, cfr. Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book 2010). Il secondo consente di cogliere la differenza alla base di nuove possibili identità (in quanto prodotto della dialettica). Ma è in realtà il terzo che asseconda la transizione dall'uno all'altro, grazie a un'intuizione prodotta dal dinamismo del corpo: è da questo sentire-non sentire, "Je-ne-sais-quoi" e "Presque-rien" di jankelevichiana memoria, che il pendolo della conoscenza oscilla in Occidente fra sintesi e analisi, fra identità e differenza.
Eppure diciamo "Nulla sarà come prima": perché mai? In virtù di che cosa? Ma, soprattutto: in che modo è e non può che essere così?
Il succitato Leed ha provato a far affiorare questo paradosso spulciando i testi di viaggio, verosimilmente quelli più vicini alla condizione del transitare, sebbene il cambiamento di stato - rilevabile mediante lo spostamento da A a B - sia in opera in ogni agire e fare dell'uomo, così come nella realtà nel suo complesso.
"L'unicità del fenomeno - osserva - può risiedere proprio in quei punti dove oppone resistenza alla comprensione. L'assenza di testi che descrivano la traversata è una lacuna significativa di questa letteratura, ed essa ci obbliga a basarci su altre fonti per fare luce sulla fase del transito. Ma perché lo spostamento senza difficoltà non può essere descritto? (...) A quanto pare lo spostamento normale, facile, piacevole, ordinato, provoca il silenzio. Frustra la narrazione e forse persino il linguaggio"
E. Leed, ibidem, p. 75
Il suo appellarsi ad "altre fonti", senza mettere in questione il proprio modo di rapportarsi a esse, non risolve l'abissalità della lacuna. Semmai ci riconsegna all'effetto compiuto, non all'effetto in divenire: il vago, appunto.
L'illusione delle forze contrastanti
Noi occidentali, eredi di Platone e Aristotele, tendiamo a vedere sempre e solo punti-limite, perché riconosciamo nel ritmo - anziché nella modulazione - l'origine del movimento. Ma una condizione ancora sfugge, soprattutto quando spieghiamo i processi ricorrendo a parole di comodo che dovrebbero esprimere la dinamica attraverso cui perveniamo al concetto. Parliamo ad esempio di Transizione, di Liquidità, di Capitale, senza soffermarci sufficientemente sulle contraddizioni che non solo riducono il discorso all'esaurimento del profitto, o all'individuazione di nuove forme di sfruttamento del mercato, ma distolgono anche lo sguardo dalle loro condizioni di possibilità.
Indubbiamente lodevole l'impegno di chi mostra come le innovazioni scalabili, tipiche dell'era finanziaria del capitalismo, implichino un ricorso strumentale alla legislazione, così da mettere fuori gioco le forze ostacolanti la massimizzazione del profitto: peccato veniale che Katharina Pistor, leading scholar presso la Columbia Law School, definisce acutamente "il diritto del capitale" (cfr. "The Code of Capital: how the law creates wealth and inequality", Princeton University Press, 2019). Altrettanto illuminanti i contributi di coloro che rilevano come la mancata crescita economica - associata al conseguimento del profitto - tenda a risolvere le sue contraddizioni attraverso guerre a intensità variabile (Lenin, "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", La Città del Sole 2001).
Ma di nuovo: che cosa rende possibile la dinamica delle "forze contrastanti"? Perché possono contrapporsi sino a generare contraddizioni? In che modo avviene il loro innesco, il loro transitante "battere e levare"?
Reversibilità della partenza
Restiamo un momento ancora sul più confortevole terreno dell'economia politica. Le guerre del petrolio scatenate dall'inizio degli anni '90 del secolo scorso dagli Stati Uniti - ha argomentato Jeff Colgan in "Petro-aggression: when oil causes war" (Cambridge University Press, 2013) - muovevano dall'obiettivo di massimizzare il profitto di una risorsa abbondante, ma rispetto alla quale non esistevano ancora (o non si voleva esistessero) alternative tecnologiche a buon mercato. Partenza e ritorno, dunque. Reversibilità del profitto garantita dalle predazione dei pozzi.
I vantaggi prodotti dal connubio fra digitalizzazione ed energie rinnovabili, manifestatisi originariamente nella Silicon Valley californiana, hanno invece offerto agli Stati Uniti un ambito di sviluppo alternativo a quello sempre più competitivo degli idrocarburi, generando dagli anni '10 del nuovo millennio un mercato sostanzialmente libero da altri predatori, almeno sino all'emergere della Cina come forza innovatrice pari, o addirittura superiore, a quella americana. Partenza senza ritorno. Scalabilità del profitto. (cfr. "Integrating Digital Economy And Green Economy: Opportunities For Sustainable Development", di Carmen Nadia Ciocoiu, Academy of Economic Studies, Bucharest 2011; "Digitalization and Green Economy - changes of business perspectives", Narcisa Roxana Moşteanu, Alessio Faccia, Luigi Pio Cavaliere, 2020).
Per quanto appaiano semplificazioni di un processo assai più complesso, i due esempi aiutano a inquadrare il paradosso di cui parlava Leed: analizzando i processi basandoci sul principio di dislocazione e distensione spaziale (il qui e il là che rendono visibile il prima e il dopo), la transizione non può che esser colta alla luce dell'evento. L'analisi, laddove faccia ricorso a una genealogia ricostruttiva che segmentizza il processo, attribuisce all'evento "la capacità di prodursi, come se possedesse un'autonoma iniziativa o quantomeno una propria individualità, spezzando inevitabilmente la continuità del corso e contraddicendo patentemente la logica della transizione" (François Jullien, Il Tempo, p.59, Luca Sossella Editore 2002).
L'evento tende ad assumere uno statuto eccezionale, perché non può prodursi in ogni momento ma ne è la condizione di possibilità; l'evento si rende inoltre manifesto attraverso lo sconvolgimento, perché riconfigura tutte le possibilità presenti e genera di conseguenza una frattura, o stacco, fra passato e futuro ("Nulla sarà come prima").
"Che sia atteso o giustificato a posteriori, l'evento, per quanto spiegabile dal contesto, conserva una componente di inammissibilità, allude a un fuori, tanto da richiedere, trascendendo qualsiasi spiegazione causale, un'interpretazione. La sua irruzione è la 'cifra' di una 'avventura', amano dire i fenomenologi. Comunque, l'evento, per il fatto di non risultare mai del tutto solubile e, distaccandosi dal corso delle cose che si susseguono implicitamente, tacitamente, pone immediatamente, in termini evidenti, l'enigma della propria origine, suscita la questione del senso, richiamando un'ermeneutica. A partire da ciò, attira un interesse che travolge la ragione, che parla al desiderio e all'immaginazione"
F. Jullien, ibidem, p. 60
La produzione dello spazio
Se la transizione resta niente più che un "fra" eventi sconvolgenti, è inevitabile che la nostra attenzione finisca per essere rivolta solo al problema cruciale della "produzione" dello spazio, nonché della sua pericolosa economicizzazione. Nietzsche lo aveva denunciato: "Dove è lo spazio è l'essere" ("La volontà di potenza", frammenti 315, 316 e sgg.). Ma è soprattutto Henri Lefebvre ad aver contribuito a emancipare lo spazio da qualsivoglia forma di presenza e manipolabilità unidirezionale.
"Quando lo spazio sociale cessa di confondersi con lo spazio mentale (definito dai filosofi e dai matematici), con lo spazio fisico (definito dal lato pratico-sensibile e dalla percezione della "natura"), rivela la sua specificità"
H. Lefebvre, "La produzione dello spazio", PGreco 2018, p. 49
Specificità che, per Lefebvre, riscrive l'idea stessa di tridimensionalità: spazio significa al contempo "pratica spaziale" - ciò che garantisce la continuità d'azione in una relativa coesione - ma anche "rappresentazione dello spazio", ovvero l'ordine istituente la conoscenza, e "spazio di rappresentazione", il codice di lettura acquisito o messo in discussione dalle comunità di senso.
In sintesi: "I prodotti parziali localizzati nello spazio (le cose) da una parte, e i discorsi sullo spazio dall'altra, non sono che indicazioni e testimonianze di questo processo produttivo (che comprende, senza tuttavia ridurvisi, dei processi significanti). (...). La teoria riproduce, con una vera e propria concatenazione di concetti, il processo generatore: non soltanto dal di fuori (in modo descrittivo), ma dal di dentro, come globalità, passando senza tregua dal passato al presente (e viceversa)" (ibidem, pp.57-58).
Produzione e prodotto, per noi occidentali, divengono allora due facce inseparabili del "processo" di transizione in quanto "farsi strada" dello spazio. Del suo aprirsi una via alla presenza. Jacques Derrida direbbe: dell'espacement (cfr. "Margini della filosofia", di J. Derrida, Biblioteca Einaudi 1997)
Semiologia dell'andirivieni
Certamente anche la metamorfosi del fisico è segno di una temporalità in processo, ma la sua maggiore o minor percezione - al punto da non essere rilevabile in casi estremi - dipende per noi dall'alterazione dell'ordine degli indici: i tipi di segno che rappresentano il proprio oggetto per connessione diretta, come appunto l'indicazione di un dito, un cartello stradale, un nome proprio, un numero, o la cima di una complesso montuoso. Gli indici funzionano come etichette sulle bottiglie, a differenza delle icone che rappresentano il proprio oggetto per similarità, ma anche dei simboli che, per rappresentare, necessitano di un'interpretazione: le parole, le proposizioni, i discorsi.
Seguendo la semiologia di Charles Sanders Peirce (cfr. Collected Papers, 8 vols., 1931-38/1958, ed. by C. Hartshorne, A. Burks, P. Weiss, Harvard University Press, Cambridge MA), per rendere visibile il cambiamento occorre infatti rappresentarlo matematicamente sotto forma di "continuo", cosicché sia possibile riconoscergli proprietà come la plasticità, la riflessività, la modalità o, appunto, la transitività, leggibile in virtù dei cosiddetti "grafi esistenziali".
"Si tratta di una logica iconica - sottolinea ancora Giovanni Maddalena (ibidem, p. 31) - fatta cioé di disegni, di grafi e delle loro combinazioni. Ora, lo studio semiotico di questi grafi ci spiega come mai il percorso e il risultato siano la stessa cosa: nei grafi noi acquistiamo una conoscenza nuova, cioé ragioniamo sinteticamente, disegnando. I grafi sono percorso e risultato. Non c'è prima la comprensione e poi il disegno. Non c'è la rappresentazione distinta dal rappresentato. In azione le due cose vanno insieme. Il giudizio sintetico è dunque un'azione, come quella di disegnare, che ci fa riconoscere un'identità del tipo A=B. Quando tale riconoscimento diventa abituale, otteniamo una certezza effettiva, più sicura di una definizione del tipo analitico A=A".
L'umpan dei nativi australiani
Il livello di astrazione raggiunto dalla logica occidentale, attraverso la matematizzazione del linguaggio, appare nei suoi grafi ostico e quasi indecifrabile ai non specialisti. Eppure la funzionalità dei grafi - ma non la loro funzione - è del tutto analoga a quella di un'antichissima pratica in uso presso le popolazioni native australiane, l'umpan: parola aborigena che indica, al contempo, l'operazione del tagliare, incidere, produrre e, oggi, scrivere. In inglese viene tradotta come sand talk, evocando l'usanza di disegnare immagini sul terreno per comunicare conoscenza, dalla quale è possibile si sia evoluta la pratica ideogrammatica dell'Estremo Oriente.
"Il mio metodo di scrittura - spiega Tyson Yunkaporta, ricercatore appartenente al clan Apalech del Queensland - incorpora immagini e storie connesse a un luogo e a relazioni, espresse all'inizio mediante un'attività culturale e sociale" ("Sand Talk", HarperOne 2020, pp.14-15).
Ci siamo. Qui emerge la differenza fondamentale fra descrizione autoreferenziale (dentro) ed eterodiretta (fuori) stigmatizzata da Lefebvre, quando parla di "produzione dello spazio". Se il pensiero dell'uomo è informato dal linguaggio, dal canto suo il linguaggio non dipende affatto da facoltà "a priori" dell'uomo (sorta di sorprendenti proprietà fisiche universali e incorruttibili), bensì dalla topografia del proprio spazio di vita (Lebenswelt). Topografia che produce topologia. "Voglio usare un processo di pensiero per configurazione (pattern, ndr) al fine di criticare i sistemi contemporanei e trasmettere un'impressione della configurazione stessa della creazione. (...) L'autentica conoscenza continuerà a muoversi nella terra e nei popoli e io mi muoverò con lei" (ibidem, p.17).
Casa-origine
Per una coppia di persone abituata a trascorrere fianco a fianco ogni giorno, l'invecchiamento non è che manifestazione dell'infinitesimale, difficilmente rilevabile attraverso il piano spaziale della condivisione. Per la stessa coppia costretta a separarsi a seguito dell'allontanamento di uno dei soggetti, sarà invece la polarità dello spostamento a offrire loro un metro normativo: se l'ordine delle icone e degli indici del proprio spazio di vita non viene alterato - secondo la visione occidentale - il ritorno alle condizioni di partenza permetterà di riconoscere una "casa-origine": lo spazio permanente di condivisione delle proprie percezioni, da cui sarà possibile simbolizzare. Generare familiarità nella ri-congiunzione (processo che può però essere messo in crisi dalla condizione dis-giungente della restanza, cfr. Vito Teti, "La restanza", Giulio Einaudi Editore 2022).
L'altro in cui il dipartito si imbatterà pare così destinato a venir riassorbito dal ritorno al medesimo, venendo riattualizzato non tanto attraverso il riconoscimento di segni familiari, quanto dalla memoria dinamica del corpo-ambiente. Il ricordo può infatti rivelarsi un rimando volatile, perché dipende dalla possibilità di replicare o meno le stesse azioni consentite dallo spazio di convivenza. Nel corpo del dipartito, così come in quello del permanente, l'abito sopravvive invece a un livello più profondo, come sedimento stratificato, non rappresentando però una proprietà del corpo: pertiene al suo modo d'agire lo spazio, dettato sia dallo conformazione che dalla memoria. Mutando la referenza delle icone, o la dislocazione degli indici, muta la possibilità stessa di fare ritorno e di riconoscere perciò una casa-origine.
Riattualizzare lo spazio attraverso le songlines
L'espressione "nulla sarà come prima" dovrebbe essere allora intesa come "nulla sarà come là". Chi sostiene che le condizioni di vita del "là" siano impossibili da ripristinare "qui", o conseguentemente il prima rispetto all'ora, dice però una mezza falsità: questa resta innanzitutto una modalità di lettura dipendente dal nostro modello culturale in quanto occidentali. Il "prima" può essere inoltre riattualizzato, a patto che le sue icone e i suoi indici spaziali non siano stati modificati, alterando l'ordine del riconoscibile. Questa è appunto la "magia" dello storytelling aborigeno, in grado di riattualizzare songlines risalenti a oltre 60mila anni fa. Per l'Australian Oxford Dictionary (1999: 1285) "song line" va intesa come "mappa disegnata dal transito di un essere o esseri ancestrali. Mentre la forma composta "songlines" espande sia i riferimenti di song che di line, la voce intangibile del canto (song) lascia invece affiorare la topografia di un paesaggio fisico in una linea (line) non confinata a un piano o a una direzione, ma scorrente a livello multidimensionale attraverso toni e ritmi che seguono il contorno culturale paesaggistico della terra" ("Signposted by song: cultural routes of the Australian Desert", di Diana James, in Historic Envorment, volume 25 numero 3, p.34).
Andy Tjilari, anziano Pitjantjatjara custode di straordinarie biblioteche orali di canti, ha guidato ad esempio il primo viaggio Ngintaka dell'Aiatsis Songlines Project basandosi proprio su uno di essi. "La sua memoria visuale e auditiva per queste mappe intangibili della terra è vasta, dettagliata e accurata; che il viaggio venga svolto di giorno o di notte, lui riesce a trovare comunque la sua via. Le songlines che mappano la sua terra sono tracce degli antichi creatori del Tjukurpa" (parola usata nell'area del deserto centrale australiano per indicare, stando allo scrittore aborigeno Mudrooroo, "uno stato psichico nel quale o durante il quale avviene il contatto con gli spiriti ancestrali, ovvero la Legge, il processo dell'origine di ogni cosa", "Us Mob", 1995, p. 41). Al tempo stesso, restituiscono l'intelligenza della terra: tracciano le pozze, distinguono le fonti del cibo commestibile, marcano gli alberi, le grotte, le colline, le praterie, i letti dei fiumi che sostengono la vita delle persone e degli animali che transitano per la terra.
"Conoscendo una canzone io posso viaggiare attraverso una terra che non ho mai visto prima e trovare acqua"
Tjilari, pers.comm. 1975
Per una nuova scrittura dello spazio
Il mondo transita sempre e comunque, ma la memoria dinamica del corpo, in quanto sedimentazione del paesaggio, resta. Ecco perché è più efficace, in termini di ineluttabilità del cambiamento, trasporre la transizione nel corpo, ancorché nel suo spazio vitale.
Agire "come se", immaginando che l'altro sia ancora al suo posto e si comporti di conseguenza, proietta una serie di possibili risposte in funzione dell'abitudine. Un numero certamente ampio, ma in definitiva limitato dal proprio spazio di coabitazione e quindi riadattabile. Il dipartito, a sua volta, potrà rispondere agli indici dell'originario spazio di coabitazione riattualizzando i propri abiti solo sino al momento in cui sarà questo stesso spazio a permetterlo. O, appunto, la sedimentazione dinamica del proprio corpo. Laddove l'abito acquisito (per funzione o per ereditarietà) dovesse perdere efficacia, quello sarebbe anche l'inizio del suo "non ritorno" a casa: un nuovo adattamento, che inevitabilmente va a riflettersi sugli abiti dell'originario spazio di coabitazione. Se il dipartito "ritornato" può rispondere al medesimo così come sempre fatto, l'aver acquisito una funzionalità altra apre anche alla possibilità che, proprio questa, sia successivamente evocata dallo spazio originario. E qualora lo spazio-casa fosse in grado di accoglierla in modo efficace, il "ritorno" sarebbe perso per sempre.
"Si tratta di produrre un nuovo concetto di scrittura - aiuta a chiarire Jacques Derrida - che possiamo chiamare gramma o dif-ferenza. Il gioco delle differenze presuppone infatti delle sintesi e dei rinvii, i quali vietano che in alcun momento e in alcun senso un elemento semplice sia presente in se stesso e rinvii soltanto a se stesso. Tanto nell'ordine del discorso parlato, quanto in quello del discorso scritto, nessun elemento può funzionare come segno senza rinviare a un altro elemento che, esso, non è semplicemente presente. Questa concatenazione fa sì che ogni elemento - fonema o grafema - si costituisca a partire dalla traccia presente in esso degli altri elementi della catena o del sistema" ("Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione", Ombre Corte Edizioni 1999, p. 36).
Il non-ritorno
Esistono perciò due diversi modi di non fare ritorno. L'automatismo dell'abito originario è inevitabilmente alterato dalla variabilità dello spazio d'azione, consentendo l'acquisizione (o l'eliminazione) di un'eventuale facoltà. Se questa non si manifestasse, significherebbe infatti che lo spazio d'azione è mera continuità priva di soluzione. Possono però persistere, o meno, mineralità dello spazio vitale e sedimentazione dinamica del corpo. L'alterazione della seconda incide sul mantenimento della prima (ne sanno qualcosa gli abitanti di Hong Kong, un tempo in lotta contro gli ingegneri inglesi noncuranti delle leggi del Fengshui), mentre l'alterazione della mineralità non necessariamente rimuove la sedimentazione dal corpo. Semmai provoca assestamenti. Adattamento.
"Il gramma come dif-ferenza - sottolinea ancora Derrida - è allora una struttura e un movimento che non si possono più pensare a partire dall'opposizione presenza/assenza. La dif-ferenza è il gioco sistematico delle differenze, delle tracce di differenze, della spaziatura (espacement) mediante cui gli elementi si rapportano gli uni agli altri. Questa spaziatura è la produzione, nello stesso tempo attiva e passiva (la "a" di différance indica proprio questa indecisione rispetto all'attività e alla passività: indica ciò che non si lascia ancora comandare e distribuire da tale opposizione), degli intervalli senza cui i termini "pieni" non significherebbero, non funzionerebbero. E' anche il divenir-spazio della catena parlata - che è stata definita temporale e lineare -: divenir-spazio che, solo, rende possibili la scrittura e qualunque corrispondenza fra parola e scrittura, qualunque passaggio dall'una all'altra" (ibidem, p. 37).
Efficacia dello spazio
Qui emerge anche il punto di rottura che distingue lo spazio fisico d'azione dallo spazio virtuale. Per quanto riproducibile o aumentabile, lo spazio virtuale è il prodotto di una serie predeterminata di risposte che non incontrano la resistenza di un altro da sé. Nessun ostacolo virtuale è dotato del potere limitativo di uno fisico, perché tutte le variabili che in esso sono inscritte provengono dallo stesso soggetto che lo ha prodotto. Sia a livello individuale, collettivo, che di intelligenza artificiale (almeno sino al momento in cui quest'ultima non si auto-configuri come "altra" dall'uomo). Byung-Chul Han porta un esempio quanto mai emblematico, attingendo da uno dei primi film che esibiscono il potere della virtualità.
"Il film di Hitchcock Rear Window (in italiano, "La finestra sul cortile") illustra il nesso tra l'esperienza scioccante provocata dal Reale e l'immagine come schermatura. La vicinanza fonetica fra rear e real ne è un indizio ulteriore: la finestra sul cortile è una vista meravigliosa. Il fotografo Jeff (James Steward), immobilizzato sulla sedia a rotelle, siede alla finestra e si intrattiene con le spassose vite dei vicini che si offrono all'osservazione dalla finestra. Un giorno si convince di essere stato testimone di un omicidio: il sospettato si accorge di essere osservato furtivamente da Jeff che gli abita di fronte. In quel momento l'uomo guarda Jeff. Questo inquietante sguardo dell'Altro, questo sguardo proveniente dal Reale rompe la rear window come vista meravigliosa. Il sospettato, l'inquietante Reale si introduce infine nell'appartamento di Jeff, il fotografo, che cerca di accecarlo con il flash della macchina fotografica, vale a dire cerca di nuovo di esorcizzarlo, e persino di respingerlo nell'immagine. Ma il tentativo non riesce: Jeff viene gettato giù dalla finestra e il sospettato si svela effettivamente un assassino. In quel momento la rear window diventa un real window. La conclusione: la real window si trasforma nuovamente nella vista meravigliosa, in rear window" ("Nello sciame", di Byung-Chul Han, Nottetempo 2015, pp. 43-44).
Per quanto innovativa e sorprendente, ogni modificazione dello spazio originario può essere infatti ri-tracciata e ri-costruita. Ciò che davvero manca al virtuale è il limite dell'altro da sé, che non dipende dal livello di potenza (espandibile e aumentabile all'infinito) del soggetto che lo abita, ma dal suo grado di disorganicità rispetto all'uomo. Lo spazio fisico, in termini kantiani, conserva infatti una "noumenicità" irriducibile, che nessuna "fenomenicità" è in grado di superare o comprendere in via definitiva.
L'etere del vago
Non a caso, la soluzione individuata da Hegel è consistita nel risolvere la dimensione del Reale in quella del Razionale, demandando allo "Spirito della storia" le risposte inevitabilmente evase dall'individualità del soggetto.
"Il sapere della filosofia è l'immediatezza restituita. La filosofia medesima è la forma di mediazione, del concetto. Come immediatezza lo spirito che sa sé è in generale, è coscienza, immediata coscienza sensibile, la quale sotto la forma dell'essente è un altro da sé, è lo scisso nella natura e nel sapere di sé. Lo spirito è la sua quieta opera d'arte, l'universo essente e la storia del mondo. La filosofia si aliena da se stessa, arriva al suo cominciamento, alla coscienza immediata la quale è appunto lo scisso. La filosofia, così, è l'uomo in genere. E a quel modo che il punto dell'uomo è, è il mondo; e a quel modo che il mondo è, è l'uomo: un colpo li crea entrambi"
"Introduzione alla filosofia dello spirito", in "Hegel. I principi", a cura di Enrico de Negri, La Nuova Italia Editrice 1997, p.72
In Occidente partenza e arrivo sono egualmente momenti dell'incessante mediazione del Razionale attraverso il Reale. Risultati di un costante compromesso che, da una parte, attestano l'opera chiarificatrice dello Spirito, almeno sino a quando l'ordine dello spazio continuerà a produrre gli schemi del tempo; dall'altra, offrono al soggetto l'ebbrezza divina - ma pur sempre illusoria - della (auto)comprensione storica. Così chiarisce Enrico de Negri, commentando in nota il pensiero hegeliano (ibidem, p. 65): "La prima parte della filosofia (logica) giunge sino all'Idea, la quale è da dirsi assoluta sostanza, perché manca della realizzazione come natura e come spirito. L'Idea tanto è (passività) quando diviene (attività). Infatti nell'Idea il principio di identità (statico) è giunto all'equilibrio col principio della differenza molteplice (dinamico). Tale equilibrio logico si presenta in natura come l'etere. L'etere è "la forza vitale assoluta"; la sua essenza "ha in sé tutte le opposizioni" mentre "nulla è opposto a lei", ed "è universalità come il concetto assoluto" (Filosofia della natura del 1803, Werke, XIX, pagg. 133-134)".
Preso in questi termini, l'etere hegeliano è dunque riconducibile al vago del giudizio che abita ogni intuizione in movimento. Si tratta però di un vago ben diverso dalla liquidità della transizione cui ci consegna la rivoluzione digitale: là dove il digitale produce spazi virtuali, apparentemente liberi perché autoreferenziali (transizione senza attrito), il vago si configura invece attraverso l'irriducibilità dell'altro. Produce una transizione, dal là al qui, certamente non soggetta ancora a mediazione cosciente, ma già custode dell'efficacia del Reale. L'odosophia.