2.7 Potenzialità e rischi dell'audiovisivo
La storia tecnologica del Novecento porta in scena un nuovo tipo di soggetto, prodotto dall'«estasi della contingenza». A fronte della manipolabilità del visibile e dell'udibile, l'uomo contemporaneo tende tuttavia a trascurare la conflittualità interna della parola significativa
(se non letto prima, si rimanda al post "2.6 Il tempo della trasgressione")
Ogni volta che cogliamo uno "stacco" nelle pratiche di vita acquisite, la trasgressione ha già segnato il proprio passaggio (come scriveva Hegel: "non passa, ma è già passato") e può dunque manifestarsi nella sua valenza "oggettiva", tanto sotto il profilo del visibile quanto del dicibile. Tale oggettività, tuttavia, dipende dall'insieme dei gesti che disegnano lo spazio-tempo di ciascun individuo (l'«essere-per» del qualcosa), ragion per cui visibile e dicibile significano il medesimo solo per soggetti che condividono le stesse pratiche.
Il Novecento ha visto manifestarsi un buon numero di paradigmi spazio-temporali sconosciuti, dall'evoluzione della fotografia (che, più esattamente, appartiene al 19° secolo) all'affermazione del cinema. Quest'ultimo ha elaborato una forma di scrittura del tempo del tutto diversa da quella cui avevano abituato altri mezzi di comunicazione. Con la televisione comincia a emergere un ulteriore disallineamento delle modalità di scrittura: la temporalità del cinema può essere destrutturata dallo zapping e dalla pubblicità. Fenomeno poi moltiplicato ed esploso in tutta la sua violenza nell'era dei social network, di cui Lewis Baltz aveva anzitempo intuito l'avvento (Soggetti ed oggetti nella nuova cultura tecnologica, Intervista di Mediamente del 22 gennaio 1998),
"La tecnologia digitale potrebbe rendere possibile, almeno teoricamente, che ciascuno sia dovunque in ogni momento. Questo, in un certo senso, si oppone al "dictum" del postmodernismo della scomparsa del soggetto, poiché si può parlare di molteplicità del soggetto: il soggetto non è più uno solo, ma è due o quattro o molti miliardi"
Lewis Baltz
Già da quando è stato possibile prendere a noleggio videocassette o riprodurre film privatamente, il regista ha mutato status: non è più colui che stabilisce, in ultima istanza, la sequenza e la velocità delle immagini che il pubblico può vedere, perché ogni singolo spettatore viene messo in un'analoga condizione di manipolabilità del tempo-scritto, decostruendolo a proprio piacere. Grazie alle tecnologie digitali è stato possibile avvicinarsi sempre più a un modello di scrittura e lettura della temporalità completamente aperto, già profondamente diverso, ad esempio, rispetto alla fruizione del cd-rom, che mantiene una sequenza di accesso prestabilita. Oltre ad essa, infatti, l'utente ha avuto la possibilità di creare e definire una modalità di accesso alla scrittura del tutto casuale.
Con lo sviluppo della manipolabilità in tempo reale, è nata di fatto un'altra dimensione ancora: internet e il lavoro da remoto sul web hanno permesso una sovrapposizione del paradigma lineare dello spazio-tempo e del paradigma a tutto campo.
Nella videosfera non ha neppur più senso parlare di spettacolo: il soggetto-spettatore non è più davanti all'immagine, ma direttamente immerso nel visuale. Il flusso delle immagini, infatti, non è più propriamente "oggetto" di visione, o addirittura di contemplazione. Il verbo scelto per esprimere il nuovo rapporto tra soggetto e oggetto, è stato al contrario "navigare". La stessa pratica dello zapping non ha fatto altro che abituare ad alimentare sempre più il gioco delle casualità e delle contingenze, senza però uscire dalla forma-flusso: come può l'occhio ritirarsi da ciò che vede, prendere le distanze e produrre quello sguardo critico che è il presupposto di ogni riflessione? Passando forse dall'altra parte del tubo catodico, o guardando direttamente in videocamera?
"Quello che si osserva oggi è una sorta di dispersione, di dissipazione dell'esistenza in una miriade di occasioni consumistiche, dovuta alla moltiplicazione degli strumenti di distrazione e divertimento. È come se l'uomo si trovasse sempre più fortemente e velocemente esposto a consumare e, consumando, consumarsi. Io sono sempre molto impressionato da ciò che avviene quando si guarda la televisione: quasi nessuno riesce ormai a resistere alla tentazione di utilizzare il telecomando e si diverte a un certo punto a premere i pulsanti il più rapidamente possibile, cambiando il più rapidamente possibile i canali finché - forse è capitato persino a noi stessi - la narrazione continua che si svolge all'interno di un programma televisivo perde d'interesse; spezziamo tutti i programmi possibili in tanti frammenti, che mescoliamo in una successione casuale nella quale ci troviamo noi stessi, lasciandoli semplicemente scorrere innanzi ai nostri occhi".
Aldo Masullo ("Per una critica dell'immagine", intervista per Mediamente del 21 febbraio 1996)
È quel genere di ebbrezza che Aldo Masullo chiama "estasi della contingenza", perché viene meno la necessità narrativa da cui ci si lascia abitualmente prendere, favorendo l'esposizione totalizzante all'occasionalità di rapidissime successioni. Il tempo personale - che è tempo-vita, tempo di sequenze fra loro collegate, di mediazioni, di narrazioni - finisce ineluttabilmente per svaporare nella dissipazione di una molteplicità di istanti, ciascuno senza relazione con l'altro.
Questo caso limite può essere considerato, in qualche modo, il sintomo paradigmatico del tipo di cultura entro cui l'uomo contemporaneo è immerso: una cultura sempre più forte per la potenza delle sue costruzioni e che, paradossalmente, rende l'individuo sempre più debole di fronte alle potenzialità di quelle stesse costruzioni. Accanto a questo fenomeno di estrema frantumazione dell'esistere, quindi di perdita del senso stesso dell'esistere in una ebbra molteplicità di occasioni senza rapporto tra di loro, risponde un bisogno tanto urgente - quanto soffocato - di interrogazione. I lettori scrivono, gli ascoltatori vogliono essere sentiti, se non addirittura visti in televisione. Un bisogno da non interpretare solo come mero protagonismo - che pure avrebbe il suo significato come contromossa al rischio di dissipazione (una sorta di conquista della propria identità mentre questa si va dissolvendo) - ma anche come urgenza di individuare un criterio chiarificatore, quindi critico e filosofico, persino nelle vicende più banali della vita.
Benché l'immagine abbia rappresentato la prima forma di educazione per l'uomo, spogliata della sua valenza simbolica e sottratta al tempo della sedimentazione, scade a segno senza più rimando. Proprio l'esempio del cinema dimostra come la scrittura spazio-temporale non dipenda esclusivamente dal modo in cui le immagini vengono ordinate, ma anche dal loro ac-cadere nella parola. Quest'ultima, infatti, opera una duplicazione del Medesimo, dischiudendo nuovi livelli di visibilità. Sarebbe allora più corretto parlare di "audio-visivo" in relazione agli spazi abitabili dall'uomo, che si offrono nella loro apparente immediatezza pur essendo sempre la sovrapposizione di due piani percettivi: la realtà come rappresentazione e la realtà come espressione.
"La realtà appare riflessa - scrive Marco Senaldi in Questo non è un testo (Mente, linguaggio, espressione, Mimesis IF, Milano 2001, p.61) - proprio perché è insieme più e meno di se stessa, proprio perché l'audiovisivo ne estrae la natura dialettica, concettuale". Nel suo processo di acquisizione del reale attraverso la significazione, il linguaggio tende dunque a far emergere la cosa "in sé", operando di volta in volta tagli discrezionali sul continum audio-visivo.
"Ricordate quello che Hegel dice del concetto: il concetto è il tempo della cosa. Certo il concetto non è la cosa in quanto essa è, per il semplice motivo che il concetto è sempre là dove la cosa non è, arriva per sostituire la cosa, come l'elefante, che ho fatto entrare l'altro giorno nella sala attraverso l'intermediario della parola elefante. Se ciò ha talmente colpito qualcuno di voi, è perché era evidente che l'elefante era proprio lì, dal momento in cui lo nominavamo. Della cosa, che cosa può essere lì? Non è la sua forma né la sua realtà, perché, nell'attuale, tutti i posti sono presi. Hegel lo dice con grande rigore: il concetto è ciò che fa sì che la cosa sia là, pur non essendoci"
(J. Lacan, Il seminario. Libro I (1953/54), "La funzione creatrice della parola", Einaudi, Torino1978, p.298).
Troppo facilmente assunta nell'oggettività di un significato che, in realtà, è l'esito irrisolto di una conflittualità audio-visiva, la parola dice e nasconde al tempo stesso ciò che le scritture del tempo rendono facilmente manipolabile. Con Kojeve: "La Parola rivela il Senso del Reale che realizza nel Presente il proprio Passato, ossia quello stesso Passato sopravvive 'eternamente' nella Parola-Concetto" (A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947, pp.373 sgg).
È dunque la parola, e non l'immagine, quella faglia tellurica entro cui costantemente scava la trasgressione e il controllo opera per svuotamento? (continua 2.8)