4.0 L'ospitalità, soglia del non-luogo
A causa della velocità dello sviluppo tecnologico, i presupposti della scienza geografica sono messi radicalmente in discussione, tanto da portare alla dissolvenza dello spazio nel cyberspazio e del tempo nella decodificazione. L'immediatezza cui consegnano, però, offre al soggetto la possibilità di esporsi alla creazione dell'identità
(se non letto prima, si rimanda al post "3.9 In cerca del non-luogo, l'utopia")
Non è possibile parlare di limiti e confini senza tornare a chi li istituisce nell'atto stesso di valicarli: l'ospite, parola che gira su se stessa, dicendo una cosa e il suo complementare. Come definire l'ospite, dunque? Per Foucault "è colui che offre ciò che possiede, poiché non può possedere se non ciò che propone - proprio ciò che è là davanti ai suoi occhi e disponibile per tutti. E', come si dice in una parola meravigliosamente equivoca, regardant" (M. Foucault, La prosa di Atteone, in Scritti letterari, op.cit., p.94).
Regardant, in francese, ha il doppio significato di riguardante e di tirchio. Il verbo garder, fra l'altro, significa tanto sorvegliare per custodire, quanto custodire per conservare (implicando con ciò tanto l'atto del vedere, quanto l'atto dell'avarizia). Va infine notato che la particelle re (che accompagna tutta la sfera semantica ruotante attorno al verbo) comporta un senso di ripetizione dell'atto indicato dalla parola. Assecondando tali suggestioni grammaticali, riusciamo a scorgere nell'ospite una figura di svolta per comprendere il rapporto fra visione e linguaggio. Surrettizio e avaro, questo sguardo che dà, preleva la sua parte di delizie e confisca una faccia delle cose che non riguarda l'ospite con un atto di completa sovranità. Ma questo sguardo ha anche il potere di assentarsi, di lasciare vuoto lo spazio che occupa e di offrire ciò che egli avvolge con la sua avidità.
"Tanto che il suo regalo - osserva ancora Foucault - è soltanto il simulacro di un'offerta, dal momento che egli non "guarda", di ciò che offre, che la fragile silhouette lontana, il simulacro visibile". Come vedremo meglio avanti, il teatro è inevitabilmente destinato a sostituirsi a questo sguardo che dona, è il luogo originario dove la permeabilità del soggetto tende a solidificarsi in un ipse solo attraverso i simulacri del proprio sé.
La nuova privacy, dunque, non può essere costruita elevando muri, ma aprendo le porte, trasgredendo i confini: "la monade della privacy deve essere ospitale per essere ipse, il sé a casa propria, la privacy abitabile nel rapporto del sé con il sé" (J. Derrida, op. cit., p.74). D'altra parte, il rapporto fra pubblico e privato non pende a favore del primo: è in realtà la sfera del privato a essere in continua espansione, a scavalcare i confini legittimati (ad esempio, l'e-mail che mette in contatto gli antipodi del globo), istituendo nuove leggi ancor prima del loro riconoscimento ufficiale. Ma in quale misura è ancora possibile parlare distinguendo un privato e un pubblico?
La rivoluzione informatica e tecnologica, protagonista assoluta delle trasformazioni in corso, rimette in discussione i presupposti moderni della scienza geografica dove i limiti, i confini tracciati durante la redistribuzione geografica, vengono individuati nelle basse potenzialità offerte dalla velocità e dallo spostamento.
«Se parlare di Fine della Storia diventa prematuro, si può parlare senz'altro di Fine della Geografia»
(P. Virilio, in Z. Bauman, Dentro la Globalizzazione , Laterza, Roma-Bari 1998 , p. 15)
L'osservazione di Paul Virilio, maturata da studi di carattere antropologico sul concetto di confine e distanza, rimette in causa proprio quest'ultima, permettendole di assumere un carattere cruciale che nella riconsiderazione dell'idea di spazio.
Il confine della politica estera e interna inizia infatti a diventare labile e fragile, laddove non si dà altro che un flusso multilineare ed extra-territoriale, rispetto al quale le categorie del "dentro" e del "fuori" perdono la loro valenza significante anche all'interno delle stesse categorie di appartenenza. Le teorie classiche sulla "comunità", al pari della sua disamina strutturale in rapporto a confini e localizzazioni, cedono il passo a una nuova analisi chiamata a confrontarsi con l'implosione del tempo e, di conseguenza, dello spazio parimenti a zero (per usare una terminologia viriliana): viene in tal modo offerta una prospettiva d'indagine che, dalla coscienza della Gemeinschaft (comunità), arriva a concepire quella più ampia della Gesellschaft (società) (Tönnies, in Z. Bauman, Dentro la Globalizzazione, op. cit., p.18).
La rivoluzione dei mezzi d'informazione e delle attuali tecnologie informatiche, superando i limiti costruttivi di uno spazio architettonicamente sviluppato secondo modelli solidi e impenetrabili, introduce inoltre una terza dimensione del mondo umano rappresentata dallo "spazio cybernetico" o anche "cyberspazio".
«Gli elementi del cyberspazio sono privi di dimensioni spaziali, ma iscritti nella singolare temporalità di una diffusione istantanea. Da ora in poi ostacoli fisici o distanze temporali non potranno più separare la gente. Con l'interazione fra i terminali dei computer e i video, la distinzione fra Qui e Là non significherà più nulla»
(P. Virilio, in Z. Bauman, Dentro la Globalizzazione, op. cit., p. 21).
Organizzate in funzione dell'immediate capacità del corpo umano (di fatto "metafore" di natura organica, secondo Timothy Luke), le spazialità tradizionali perdono il loro valore costitutivo di fronte all'atemporalità e all'emersione di "Non-Luoghi" (Marc Augé) che caratterizzano le dimensioni della nuova socialità/a-socialità. Zigmund Bauman, a sua volta, insiste sulla prospettiva della velocità e del concetto di polarizzazione, ovvero sulla possibilità che questo eccesso di velocità possa creare, eliminando le distanze, non un processo di "omogeneizzazione", quanto una dualità di possibilità: in sostanza, creare nuovi significati (possedendo le chiavi di accesso ai meccanismi globali di scambio) o essere relegati nell'insignificanza (rimanendo locali e circoscritti territorialmente).
Il cyberspazio rischia dunque di diventare un impalpabile strumento di stratificazione sociale, di differenziazione e di esclusione, niente più che il simbolo dell'apologia delle nuove libertà. «Quest'esperienza di non-territorialità del potere, che la nuova élite sta vivendo in una combinazione agghiacciante di non-fisicità e onnipotenza» rischia di assumere la portata di un fenomeno di proporzioni vastissime, ritrovando il proprio significato nell'analogia di Margaret Wertheim fra cyberspazio e paradiso cristiano:
«Come i primi cristiani consideravano il cielo un regno ideale che stava al di là del caos e della corruzione del mondo materiale - la cui disintegrazione appariva sin troppo palpabile mentre l'Impero crollava attorno a loro - così in quest'epoca di disintegrazione sociale e ambientale, gli odierni missionari del cyberspazio rappresentano il loro regno come un'ideale sfera [al di sopra] e [al di là] dei problemi del mondo materiale. Mentre i primi cristiani dichiaravano il cielo un regno nel quale l'anima degli uomini sarebbe stata liberata dalla fragilità e dalle tentazioni della carne, oggi i campioni del cyberspazio lo salutano come un luogo nel quale l'io sarà liberato dai limiti della propria fisica incarnazione».
Una volta che il cyberspazio è in grado di affermare la propria legittimità e il potere stesso di emettere sentenze, il corpo dei potenti non ha più bisogno di imporsi con la forza fisica o attraverso armi materiali, ma trova sicurezza nell'isolamento remoto, così come immunità da interferenze locali privandole del loro significato sociale e riducendole a terreno grettamente "fisico".
L'uniformità, la regolarità e l'intercambiabilità delle architetture e dei progetti urbanistici diventa conseguentemente l'ossessione delle correnti preposte alla diversificazione dello spazio urbano, tese innanzitutto a isolare la diversità, ma anche a imporre modelli utopistici di razionalizzazione e di esclusione del disordine e del caos dell'interpretazione. Juergen Habermas, a riguardo, volge la propria attenzione all'interdipendenza fra Potere e Spazio, distinguendo le "differenze qualitative dello spazio" e la "cancellazione dello spazio e del tempo", quest'ultimo inteso come presupposto per il rigetto della Storia e la negazione di qualsiasi ipotesi di «decodificazione attraverso chiavi alternative, ambigue e nemiche della trasparenza del campo d'azione». Fine ultimo di questo lungo e meticoloso progetto di Modernità, per Habermans, risulterebbe paradossalmente la Entdeutigkeit (chiarezza), la garanzia dell'autorità interpretativa, della priorità funzionale rispetto a quella dello spazio abitabile e sociale. Il "piano dittatore" della ragione impersonale, che segue le verità oggettive dell'estetica e della logica, diventa infatti l'imperativo categorico dell'azione tesa a soffocare la collettività. Annullare ogni limite, la soglia che scandisce il pubblico e il privato, il segreto e il fenomenico, apre però una falla preoccupante nel concetto classico di ospitalità, o in senso lato, nei confronti della Legge.
Derrida porta l'esempio dell'imperativo di assoluta veridicità propugnato da Kant. Essendo incondizionato, tale imperativo impone di dire sempre la verità, qualunque cosa accada. Ammettere la menzogna significherebbe minacciare la possibilità stessa della socialità.
"Poiché ogni enunciato implica un performativo che promette di rivolgersi all'altro in quanto tale ("parlo proprio a te e ti prometto la verità"), poiché ogni atto di parola promette la verità (anche e soprattutto se mento), ebbene posso sempre mentire, certo (e chi potrebbe giurare o provare che Kant non ha mai mentito), ma ciò significherebbe semplicemente che non sto parlando ad altri, ecco tutto. E così facendo non riconosco né l'essenza della parola come parola data, né la necessità di fondare un legame sociale"
(Sull'ospitalità, op.cit., pp.77-78).
Proprio questa ammissione di incondizionatezza mina alla radice la possibilità di tenere per sé, di dissimulare, di resistere alla richiesta di verità, di trasparenza pubblica. Il che comporta una delegittimazione del tribunale della coscienza. Ma come posso allora mentire, se non conosco ancora che cosa sia la verità?
Il paradosso sta nel fatto che la verità si produce nel suo darsi mediante l'aperto, nel suo farsi nell'elemento del "fuori", nel suo non-aver-luogo, prima di poter tracciare qualsivoglia confine che distingua la "mia" verità dalla "tua" verità". Al di là di ogni successiva strategia, l'ex-porsi è la condizione prima per ritagliare il proprio sé per differenza: un sé che è ancora anonimo, in quanto anomico. L'io non può che essere ricostruito dalle proprie ceneri, o meglio, dalle proprie tracce (continua 4.1)