Sull'origine dell'odosophia

17.01.2020

Documentata per la prima volta in epoca umanistica, l'odosophia accompagna in realtà il cammino dell'uomo sin dalle sue origini, ma sfugge a qualsiasi definizione rigorosa in quanto "sapere cinestetico"

a cura di Alberto Caspani

Ogni volta la stessa, identica reazione. Non appena le parole odosophia, od odosofo, fanno capolino su una locandina, in un articolo o all'interno di un confronto pubblico, d'istinto viene sollevata la domanda circa il loro significato. Che cos'è l'odosophia? Chi è l'odosofo? Quasi che, in assenza di una chiarificazione ontologizzante, fosse impossibile avviare alcun discorso.


Pazientemente cominciamo allora a circoscriverne la sfera semantica, ricorrendo a perifrasi che contribuiscano a smorzare l'effetto di straniamento. E' forse una forma di filosofia? Ma filosofia di che cosa, esattamente? Sì. No. Potrebbe essere. Siamo certi, tuttavia, di sapere che cosa intendiamo per filosofia? Il rischio di aggravare lo stato d'incertezza, di confondere ulteriormente le acque e aggrovigliarci in una serie di rimandi infiniti, o ancor peggio di tautologie, resta alto. Meglio cambiare approccio.

O, restando in tema, imboccare un'altra strada.

Individuare le coordinate storiche relative alla comparsa nel vocabolario della parola "odosophia", ad esempio, sortisce una più mansueta predisposizione all'ascolto. Tranquillizza sapere che non si tratta di un neologismo, di un'invenzione magari balzana, bensì di un termine semplicemente desueto, risalente almeno al periodo dell'Umanesimo; a quell'entusiasmante stagione di riscoperta filologica dei classici greci e latini, manifestatasi nella penisola italica fra il XIV e il XV secolo. E' già un piccolo passo avanti. Se aggiungiamo il nome di un referente primo, di una fonte storiografica accertata, ancor meglio.

Dal Polesine a Ferrara
E siamo fortunati, perché esiste pure quello. E' un certo Ludovico Sandeo. Neppure il tempo di assumere una postura più comoda e di nuovo si avverte un inspiegabile fastidio. E chi è mai, costui? Qualcuno l'ha forse sentito nominare? A poco vale tracciare una sua breve biografia. Potremmo infatti raccontare che il nostro nacque tra il 14 agosto 1446 e il 12 agosto 1447 a Ferrara, o forse a Lendinara - l'Atene del Polesine - dove il padre Antonio di Princivalle fu inviato in qualità di podestà dalla famiglia Este, casata guelfa di ben più nota nomea. Ma a che pro? L'indicazione rimanda a tempi e luoghi tanto remoti, da contribuire assai poco a un agile inquadramento dell'odosophia. Eppure è proprio fra quelle lattiginose foschie padane, poco dopo il matrimonio di Ludovico con Giacoma di Bartolomeo Fontana, nel 1466, che l'odosophia fa la sua prima comparsa ufficiale. E' il nome dell'opera letteraria con cui Sandeo esordisce sulla scena del suo tempo: un poemetto allegorico in sette capitoli ternari, dedicato al duca di Ferrara Borso d'Este e intitolato semplicemente "Odosophia".

"Il titulo de epsa opera chiamo Odosophia, che è vocabulo greco et è interpretato 'via a la virtù', perché io fingo andare al monte Parnaso, il (quale) da poeti è appellato luoco di scentia et di virtù" 
(trascrizione dal manoscritto Rossiano 219, Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di Valentina Gritti)

Di che parla, dunque, questo poemetto? Ha tutte le sembianze di una Commedia dantesca minore, o di una sua parodia seria, nella quale l'autore narra il tentato raggiungimento della virtù e della gloria poetica attraverso la risalita del monte Parnaso. Un "viaggio visionario", stando al prezioso studio di Valentina Gritti, che attraversa luoghi simbolici ove risiedono i più insigni rappresentanti delle quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Pilastri salvifici di una vita consacrata al Bene, secondo il credo cristiano, eretti però in epoca classica grazie uno dei grandi padri dell'Occidente: il filosofo Platone, che ne scrive nel dialogo Fedro escogitando oltretutto un incipit pervaso già di echi odosophici ("SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni?/FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno, compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici").

Fra sophia e sapientia
Conviene indugiare su questi indizi? Sono una traccia davvero utile, o solo un possibile depistaggio? Dal punto di vista filologico, la spiegazione del buon Ludovico in merito al titolo della sua opera semplifica troppo: se "odos" rimanda all'antico termine greco per "via" (hodòs) - attorno al quale si dischiudono dimensioni autenticamente cosmiche, non certo esplorabili in questa sede - sophia viene invece caricata di un significato esclusivamente etico-morale. Virtù, poi, è parola stratificata, rimandando alla virilità e alla forza fisica della virtus romana, ma indubbiamente parziale rispetto al significato originario di sophia. I latini avevano provato a tradurre quest'ultima con sapientia, mossi dall'intenzione di conservarne l'originaria polisemia: abilità tecnica, conoscenza razionale ed equilibrata distinzione del bene e del male, del lecito e dell'illecito, dell'utile e del dannoso, includendo perciò la capacità che Aristotele ascriveva alla sola phronesis (la prudenza, ovvero un certo tipo di saggezza).

Fu proprio il filosofo di Stagira a collocare "phronesis" e "sophia" su due piani etimologicamente distinti: la prima, nell'Etica Nicomachea, venne definita "disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l'agire e concerne le cose che per l'uomo sono buone o cattive" (EN, VI, 5, 1140b, 4-6), la seconda come "scienza delle realtà che sono più degne di pregio, coronata dall'intelligenza dei supremi principi" (EN, 6, 1140b, 17-20). La distinzione riconosce un carattere di "saggezza pratica" alla phronesis, dal momento che delibera sul contingente e riguarda innanzitutto l'azione (praxis), alla sophia un carattere di "saggezza teorica", in quanto rivolta alla dimensione dell'immutabile. Nonostante le sottigliezze linguistiche, la phronesis resta però legata alla dimensione etico-morale tanto quanto la sophia, con la sola differenza di non poter far affidamento su alcuna norma metafisica, trovando il suo fondamento nella  disposizione dell'individuo. Questo carattere empirico, mal inquadrabile, ha spinto nel tempo a una gerarchizzazione sempre più rigida: la sophia è stata innalzata a sapere più alto, al punto da identificarsi con la verità stessa; la phronesis è stata ridimensionata a virtù cardinale, mentre l'ingegnosa abilità di cui Odisseo e Dedalo furono uomini massimamente dotati, la metis, ha subito un'ingiustificabile svalutazione, in grado di sottrarle ogni dignità nel perfezionamento della vita umana attraverso l'efficacia.

«In italiano noi traduciamo sophia con sapienza - evidenzia Bruno Centrone nelle sue dispense di "Istituzioni di storia della filosofia antica" (2006-2007) - e dunque definiamo la filosofia come 'amore della sapienza'. Quest'uso risale ai latini: Cicerone ci dice (Tusc, Disp, V 3,9): hos se appellare sapientiae studiosos, id est enim philosophos. È opportuno interrogarci sul significato originario di sapientia; il latino sapere significa "avere sapore", da cui può derivare "avere senno", "essere perspicace". Questa duplicità rimane nel nostro uso linguistico, con alcune sfumature: diciamo che un cibo sa di qualcosa o è insipido; un cibo è sapido e insipido, una persona sapiente (in disuso per evidenti ragioni) o insipiente; insomma, in origine è presente una connessione con un senso, il gusto, qualcosa di istintivo; in greco una connessione del genere si ha con il verbo noein (nous, noesis), che viene da una radice snovos, snow, annusare, fiutare, capacità di presentire (diremmo oggi 'captare', 'subodorare', 'snasare'), o di "accorgersi istintivamente di qualcosa", di una situazione, un pericolo, dunque una sorta di sapere diretto e istintivo. In Omero noein significa vedere, un vedere che può essere inteso e tradotto con riconoscere (Iliade, V, 590)».

Un cammino "virtuoso"
L'opera di Sandeo è troppo attenta a rivivificare la ritmica e la struttura allegorico-narrativa dantesca, per restituire all'efficacia dei sensi la vetta del Parnaso. Negli endecasillabi introduttivi il riferimento alla luce ha principalmente valore simbolico ("Era di Phoebo già la luce spenta/e le gielate corna di Phoebea/comminciavan parer cum luce lenta,/ogni animal nel suo lustro iacea/posandose, quand'io senti' serarmi/fuor d'una porta in via scabrosa e rea" Od., I 1-6). La fatica del cammino è invece indice di lontananza dalla perfezione morale delle virtù ("Io riguardai alhor in ogni lato/e non vidi verun da 'lcun di canti/unde grave dolor mi fu al cuor dato./E sospirando spesso infra cotanti/luoci saxosi per cierchar salute/mi puoisi passo passo andar inanti", Od., I 22-27). Il poeta fa inoltre affidamento su un nocchiero, anziché su un'abilità fisica, per l'attraversamento del "fiume dell'ingegno" ("Io andai insino al fiume e lì ristetti/mentre che ver di me giuso per l'onda/un piciolo batel venir vedetti./Veniva questo in aura sì seconda/sotto 'l governo d'un solo nochiero/che 'n tal velocità non scoccha fonda" Od., II 28-33). Analogamente viene affiancato da guide anonime per avanzare lungo il cammino che lo porterà addirittura in un giardino occupato da un castello ("La grande avidità di saper tutto/m'havea sì acceso che tacendo io stava/come huom che dil vital vigor è asciutto./E quel buon duca cum cui mi n'andava/mi si rivolse e disse: "Hormai convienti meco venir altroe s'el non ti grava,/ché furia di tempesta o pioggia o venti/potrà di tal camin distorti mai,/se di tua volontà tu non ti penti", Od., V, 1-9). La Prudenza, infine, si accompagna allegoricamente al primo e al più importante dei suoi incontri: il Signore di Ferrara cui l'intero poema è dedicato ("Vedi colui che sopra gli altri siede/più presso a la regina, egli è quel Borso/di cui serrà la dolcie fama herede./Meritatamente qui triumpha Borso/meritatamente qui son manifeste/le lode, le virtù del duca Borso./O gloria eterna de la casa da Este,/che tal alumno in te notrito sia,/che tal gubernatore a Italia deste!" Od., VI, 43-51).

La rivoluzione dei sensi
Benché abbondino richiami stilistici e analogie d'immagine, nell'Odosophia di Sandeo non c'è traccia di metis. Di quel legame coi sensi, con l'efficacia della corporeità, attraverso cui si manifesta non solo l'ingegno dell'eroe omerico o degli antichi miti, ma anche e soprattutto la capacità di tracciamento dell'uomo delle origini: l'idealizzato cacciatore-raccoglitore che, staccandosi dalla confortevole vita di primate frugivoro, impara a procurarsi cibo sviluppando nuove modalità percettive. Un primate che, sin dai primi passi bipedi, finisce per relegare in secondo piano i suoi sensi più affidabili - olfatto e gusto - a favore di una vista panoramica. "Essendo sprovvisti di naso - spiega Baptiste Morizot nel saggio "Sulla pista animale" (Nottetempo 2020, p.142) - è stato necessario stimolare l'occhio che vede l'invisibile, l'occhio della mente". "Leggere che il cielo limpido sarà presto piovoso nel volo basso dei rondoni che seguono, da bravi insettivori, la discesa del plancton aereo in balia delle pressioni barometriche altrimenti invisibili. Scoprire la presenza del farinello o del fungo psilocibe laggiù, su quei terreni da pascolo, perché amano l'invisibile azoto disseminato dagli animali domestici, o decifrare la curiosità del lupo nelle impronte che raccontano di una sosta su un promontorio. Tutti questi sono esempi di tracciamento eco-sensibile". L'ominide primitivo, al pari di un infante, è un animale estremamente "sensibile", "attento", capace di cogliere potenziali modificazioni di stato e movimenti interagendo con tutto ciò che avviene nel suo habitat.

Riesce più semplice, allora, calcare una pista esplicativa che ha più a che fare col sapere dell'esploratore, che con quello del filologo. Potremmo infatti procedere nell'excursus delle fonti, imbattendoci in una nuovo tentativo di chiarificazione dell'odosophia, grazie all'imponente summa del teologo luterano Johann Conrad Dannhauer: "Odosophia christiana seu Theolgia positiva in certam, plenam et cohaerentem methodum redacta", apparsa nel 1649 e dagli echi quasi spinoziani.

Si tratterebbe, però, di una riformulazione poco pertinente a quel pensiero-azione esercitantesi nell'odosophia. Dannhauer cerca di argomentarne, passo per passo, la definizione, esplorando fonti ebraiche e classiche, sino a pervenire alla definitio conclusiva. Da "Sapientia vialis, quo simul methodi ratio, quae hic tenebitur, insinuatur", arriva infine al suo riconoscimento come "Lumen (D), constans (E) coeleste, (F) Efficax (G) in oculo spirituali, puro, illuminabili, (H) quod hominem coelo exulem (I) ad patriae coelestis beatitudinem ductu suavi reducit" (paragrafo "Hodosophiae definitio").


Per quanto riaffiori l'idea di un'efficacia presente nell'occhio spirituale, in qualche modo evocativa dell'originaria capacità dell'ominide d'inferire l'invisibile dal visibile-traccia, siamo qui agli antipodi di quel prospettivismo immanente così ben descritto nell'opera di Morizot.

"Nel tracciamento accade tutt'altro: mi sembra che quello che vediamo quando intuiamo di vedere con gli occhi di un altro animale è ciò che il suo stesso corpo vede, in senso prospettivista, ossia le sue stesse affordances (inviti all'uso). Ovvero gli specifici "inviti" del suo corpo. Gli inviti vengono definiti dallo psicologo della percezione visiva James J. Gibson come le 'singolari possibilità d'azione di un determinato corpo in un ambiente condiviso'. La specificità del corpo fa protendere dei particolari tipi di inviti nell'ambiente che ci circonda: ogni albero, ruscello, guado, tana di avicola, crinale, marcatura territoriale, suggerisce un'azione diversa della forma di vita di colui che percepisce" (ibidem, p.158-159).

Logos in cammino
Ben più calzante è il tentativo di spiegare l'odo-sophia attraverso l'odo-logia. Il primo a promuovere un indirizzo di studi chiamato odologia fu, nella seconda metà del Novecento, lo studioso di paesaggi americani John Brinckerhoff Jackson, benché il nome stesso di questo sfuggente sapere fosse stato introdotto dallo psicologo sperimentale tedesco Kurt Lewin, nel tentativo di descrivere le strutture dello spazio vissuto.

"In un saggio dal titolo quanto mai esplicito, Roads Belong in the Landscape - ricorda Claudio Ferrata in "L'esperienza del paesaggio" (Carocci, 2017) - Jackson spiega che l'odologia, scienza del cammino e della strada nelle sue implicazioni con il paesaggio, deve essere considerata come una disciplina composita, in parte geografia, in parte planning, in parte ingegneria (Jackson, 1994). Egli precisa poi che il termine way è più adatto del più recente road, che significa cammino, ma anche direzione, progetto, modalità (Jackson, 2003). Se adottassimo questa prospettiva, alla strada, o meglio ancora, "al fare strada", dovremmo attribuire un ruolo attivo nella fabbricazione del paesaggio".

Le vie percorse dall'ominide delle origini non sarebbero state individuate solo tracciando gli indizi degli animali preda, dunque con gli occhi costantemente rivolti al suolo, ma riconoscendo anche gli "inviti all'uso" presenti nella morfologia del paesaggio. "Il camminare può definire l'uomo tanto quanto il parlare e il pensare - evidenzia Roger-Pol Droit in "La camminata di Kant" (Ponte alle Grazie 2017, p.19) - (...) Se si ammette che camminare è essere umani, e che camminare e pensare vanno di pari passo, eccoci sulla pista di una nuova riflessione: quali ponti portano dal bipede che avanza, animale ambulante in piedi, all'animale parlante-pensante?".

In quanto bipede, l'uomo può avvantaggiarsi di condizioni del terreno più funzionali alla propria andatura, così come riscontrare insormontabili difficoltà dipendenti dalla sua diversa animalità. In questo senso, occorre riconoscere alla viabilità una doppia virtù: nel suo passivo aprirsi al passo conforma attivamente il passo stesso. L'odosophia potrebbe allora essere definita come autorivelazione della pratica del camminare, del movimento bipede assorbito dalla vitale necessità di tracciamento della rete di co-rimandi. Prendendo consapevolezza di questa emergenza, ci troveremmo però già nella dimensione del logos, dell'odo-logia (in quanto parola razionale, veritativa). 

L'uomo autentico
Agostino Cera, in "Io e tu: Karl Loewith e la possibilità di una Mitanthrolopolgie", trova una formulazione molto calzante a riguardo. "Un'espropriante ex-posizione: è questa la pratica dei viventi. Paticità è l'ombra del viandante, ciò che un'odologia (quale sapere del cammino) non può mai ignorare" (2010, Alfredo Guida Editore, p. 157). Muovendo dalla critica del concetto heideggeriano di Eigentlichkeit, di Autenticità, viene infatti riconosciuto un primato formativo alla paticità, al carattere di costante esposizione dell'essere umano, la cui autenticità consisterebbe dunque nel suo "darsi come espropriazione".

Il rischio di cadere di nuovo in una forma di sapere astratta è però dietro l'angolo. L'odo-sophia eccede l'odo-logia e, prudentemente, Cera se ne avvede. "Non si dà il rischio che l'odo-logia finisca per essere uno starsi a guardare mentre si cammina col rischio, fatale, di incepparsi? ... dal dubbio nel cammino si giunge al dubbio sul cammino, intorno al camminare in quanto tale. Per questa ragione, terminologicamente ma non solo, sarebbe preferibile utilizzare il termine odo-sofia, dal momento che la sapienza, anche quella semplice del bon sens, è sempre più saggia del sapere, ne sa di più, soprattutto sa ciò di cui realmente ne va nel tentativo di sapere. Dalla odologia alla odosofia, dunque: da un sapere del cammino alla sapienza nel cammino, ovvero al saper camminare" (ibidem, p. 157).

Oltre il linguaggio
Prodotto di un esercizio quotidiano, dunque suscettibile di continue trasformazioni e adattamenti, l'odosophia non è di per sé definibile. Semmai, intuibile. È un abito, una sapienza che sgorga e si alimenta nel "far strada", nel muoversi in funzione di tracce eco-sensibili, esorbitanti oltretutto la dimensione animale o vegetale. "L'occhio vede ciò che prima non vedeva - scrive Nan Sheperd, camminatrice per antonomasia, in "La Montagna Vivente" (Ponte alle Grazie 2018, p.171) - o vede in un modo nuovo ciò che già aveva visto. Così fanno l'orecchio e gli altri sensi. E' un'esperienza che cresce. (...) Questi momenti giungono inaspettati, e tuttavia sono governati, parrebbe, da una legge il cui funzionamento si comprende solo vagamente. A me giungono più spesso, come ho accennato, quando mi sveglio da un sonno all'aperto, quando fisso rapita lo scorrere dell'acqua e ne ascolto il canto, e soprattutto dopo ore di cammino ininterrotto, mantenendo il prolungato ritmo del moto mantenuto finché lo si percepisce coi sensi, e non semplicemente col cervello, come il «centro immobile» dell'essere". 

Tutto è traccia
Come testimonia la cultura tradizionale dei popoli nativi dell'Australia, la più antica civiltà oggi esistente sulla Terra, vivo è anche e soprattutto il regno minerale. Ogni campo e dimensione dello spazio contribuisce infatti alla tracciabilità, a individuare una rete di rimandi significativi che fanno del mondo una semiosi infinita: tutto fa segno. Tutto è traccia. In questo senso l'universo, pur nella sua riconosciuta complessità di multi-verso, resta pur sempre un cosmo. Un immenso spazio vivente, ma ordinabile. 

L'odosophia, a suo modo, è una "strada di pensiero" intrecciata alla filosofia, benché non possa essere espressa in giudizi discorsivi, in argomentazioni e conclusioni. Appare altro ancora, però, da quell'antica "via sapienziale" (odos) che fu soppiantata proprio dal metodo filosofico (methodos). Da una parte abbiamo infatti una via che si sostanzia di visioni, dall'altra una via di parola, o, come scriveva Parmenide: "la via della verità è quella che dice è, la via dell'errore quella che dice non è".  Possiamo tuttavia risalire a una terza via che, per quanto invisibile o indicibile, è condizione di possibilità della stessa visibilità e dicibilità. 

In quanto percorso che porta all'espressione di verità (logos), cioé alla possibilità di dire il vero, il metodo (filosofico) induce l'uomo a emanciparsi dall'inaffidabilità patica dei sensi, ma non per questo si accomiata da essi in via definitiva. Ciò che l'uomo pensa, lo può pensare sempre e solo attraverso la peculiarità del proprio corpo-ambiente. L'inaffidabilità dei sensi, di cui gli scritti di Parmenide rappresentano l'originaria problematizzazione nella filosofia greca, andrebbe verosimilmente considerata una ricaduta teorica dell'esperienza sapienziale che contraddistingueva la cultura greca delle origini: una visione "liquida" della realtà, prodotta da pratiche di alterazione della coscienza di cui il dionisismo, i misteri eleusini o i riti orfici - come ben testimoniano gli studi di Giorgio Colli - continuarono a essere testimonianza vitale anche in epoca classica. Un pregiudizio, però, assente in culture che si sono sviluppate senza fare ricorso all'alterazione degli stati di coscienza, affidandosi invece al potere chiarificatorio della narrazione delle origini.

"La odos, questo 'metodo' che viene proclamato l'unico possibile, o anche, in modo del tutto letterale, come l'unico esprimibile e pensabile, monos mythos, poiché la seconda via non può venir indagata e la terza via è quella dello stordimento e della cecità, quest'unica odos, dicevo, dev'essere per Parmenide qualche cosa di essenziale del tutto, poiché nel frammento 2 ne viene proclamata l'esperienza prima ancora dell'affermazione che to eon estin (ciò che è). Non si dice semplicemente che all'eon si arrivi percorrendo l'odos. Questa preminenza non è soltano cronologica, ma anche, per così dire, sostanziale. La odos crea, non certo ontologicamente, ma sotto il rispetto conoscitivo, gnoseologico, l'eon. Infatti l'esistenza di numerosi semata posti lungo la odos determina le predicazioni dell'essere" (citazione di Mario Untersteiner in "Incontri. Vie dell'errore, vie della verità", di Carlo Sini, Jaca Book 2013, pp.14-15). In sostanza, il metodo logicamente esatto fa sorgere l'essere logicamente pensato: un "progressivo snebbiarsi dell'essere", nelle parole di Carlo Sini, grazie al riconoscimento dei semata-segnavie lungo il percorso (ad esempio, "l'essere non si muove", "l'essere non ha parti", "l'essere non ha origine"...). Quel che la tradizione greca finisce per misconoscere, in quanto cultura educata o "tras-portata" dalla voce della scrittura alfabetica, è in realtà il modo in cui i semata-segnavie possono snebbiarsi: a monte dell'espressione logica sta quella trascrizione della vita, nella carne dell'uomo, prodotta dal suo peculiare modo di agire ed essere agito.   

Lo studio delle multimillenarie pressioni di selezione, legate all'arte del tracciamento, contribuisce allora a individuare un campo d'indagine privilegiato per comprendere l'emergenza, nonché l'orientamento, delle attitudini logico-cognitive dell'uomo. 

"Le strutture cognitive, cioé i modi di pensare le cose - sottolinea acutamente Matteo Meschiari in "Terra Sapiens - antropologie del paesaggio" (Sellerio, 2012) - non sono nate come strategie astratte in uno spazio virtuale, ma sono la diretta conseguenza del cosa pensare: la geosfera e la biosfera, considerate nella loro dimensione spaziale che è il paesaggio. Dire che la mente è paesaggistica non è una metafora. Piuttosto, (...), significa dire che la mente si è evoluta nel pensare e per pensare il paesaggio".

Eredità nativa

Le songlines aborigene che ripercorrono la metamorfosi in roccia degli Antichi Creatori del Dreamtime, al pari della cura per il pianeta Terra in quanto concrezione delle spire del mitico serpente Wungudd, sono solo alcune delle più emblematiche testimonianze native di questo imprescindibile far corpo col paesaggio. Di qualunque natura esso sia. Ecco perché l'odosophia, per manifestarsi, necessita innanzitutto che ci si metta in cammino, votandosi a quel vagabondare tracciante e iniziatico che i colonialisti bianchi - rozzamente - hanno ribattezzato walkabout. Giringiro. Girare a zonzo. Se l'antichissima cultura australiana offre un campo di studio straordinario, grazie all'ininterrotta trasmissione di un sapere cinestetico consapevole della propria evoluzione, ciascun individuo della specie umana è in realtà interprete e testimone dell'odosophia.

"Lunghi periodi di immobilità hanno effetti sui muscoli, che sviluppano al loro interno depositi di grasso e con gli anni vanno incontro a una riduzione della massa (sarcopenia). E non solo: incidono anche sulla pressione sanguigna e il tasso metabolico (il tasso a cui consumiamo energia). Ma appena ci alziamo la situazione muta a livello sia fisico che mentale: diventiamo 'cognitivamente mobili', la testa gira a destra e sinistra, gli occhi sfrecciano da una parte all'altra. L'attività cerebrale si modifica e compaiono ritmi elettrici prima quiescienti. Siamo più vigili, la respirazione accelera, cervello e corpo sono pronti all'azione. Non è un caso che il filosofo svizzero Jean Jacques Rousseau abbia scritto nelle sue Confessioni: 'non riesco a meditare se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e la testa se ne va in sincronia coi miei piedi'" (Shane O'Mara, "Camminare può cambiare la vita", Einaudi 2020, p. 9).

Per modificare la nostra mappatura del mondo, liberandoci senza traumi dell'hybris autodistruttiva che ci ha posti al vertice della piramide trofica dei viventi, abbiamo allora bisogno di tornare sui nostri passi. Di educarci all'esplorazione, anziché formarci per obiettivi che riducono il mondo a mera "cosa" o "risorsa". Di calcare le piste tracciate dalla nostra specie, ma anche e soprattutto gli spazi non ancora battuti, con pazienza, insistenza e vigile attenzione.

Posture efficaci

Ma in guardia! Se da una parte è certamente necessario "mettere in gioco il proprio corpo" come invita a fare Simone Regazzoni in "La palestra di Platone" (Ponte alle Grazie, 2020), richiamandosi a quell'esercizio di sé (askesis) e cura di sé (epimeleia heautou) che, nell'antico ginnasio greco, videro la filosofia svilupparsi in un serrato "corpo a corpo" atletico, dall'altra occorre stare ben attenti a non incorrere in una rigida modellizzazione del sé. Se "la ripetizione, la fatica, fanno trapassare l'immagine mentale, la forma, nella carne del corpo sino a cancellarla, fino a fare il vuoto mentale" (ibidem, p. 78-79) e se "è nel vuoto mentale che emerge lo stile", cioé la forma incarnata nella propria singolarità attraverso il "controllo dell'immagine" e la "catena cinetica" mediante cui la postura viene scolpita nella carne, l'idea corre il rischio di imporsi - una volta ancora - sulla vita. Nell'askesis filosofico possiamo e dobbiamo prendere coscienza del valore strategico dell'efficacia, senza abbandonarci al mero corso degli eventi, ma neppur ostinandoci nel perfezionamento ipercreativo. Nel trasformare l'atleta in un oplita in marcia verso il Bene Assoluto.

E' nell'esplorazione anarchica che palpita il nostro più profondo desiderio: quell'eros conoscitivo alimentato dall'inestinguibile speranza di comprendere non tanto chi siamo "veramente", quanto da dove veniamo e sin dove possiamo spingerci, passo dopo passo.

Premesso quanto sopra, 

possiamo ora arrischiare tre risposte alle consuete domande circa l'odosophia

Che cos'è l'odosophia?

è educazione al farsi e disfarsi dei nostri percorsi

è esercizio della parola in cammino,

è percorso che, errando, riapre la via al pensiero

Chi è l'odosophos?

Specie rara di esploratore-filosofo che, smarrendo i propri riferimenti orientativi, disegna inaspettate vie di senso e trova nuove soluzioni

A cosa serve l'odosophia?

Quando finiamo in un vicolo cieco

quando siamo a corto di idee o non sappiamo deciderci, 

la risposta viene proprio dalla strada che ci ha perduti


e ora, un altro passo avanti...