Odosophia: primi passi

17.05.2019

Oggi la sostenibilità è diventata la conditio sine qua non per garantire la sopravvivenza della specie umana sulla Terra. Un imperativo morale più che etico, considerato l'effettivo impegno dei governi nazionali e sovranazionali, ma pur sempre un imperativo. Una via obbligata, l'unica possibile, come amano ripetere i portavoce dell'Agenda 2030 dell'Onu e dei suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (1). Ne siamo davvero sicuri?

a cura di Alberto Caspani

Ancora una volta, la transizione verso un "nuovo" modello economico prende forma attraverso il linguaggio riduzionista di quel liberismo che, per secoli, ha distrutto, assorbito e omologato qualunque altro e altrimenti (2). Di fronte alle conseguenze sempre più allarmanti del cambiamento climatico, sin dagli anni '70 del secolo scorso alcuni dei maggiori economisti occidentali hanno infatti iniziato a delineare, nonché a proporre ai governi, un paradigma di sviluppo che non metta realmente in discussione il mito liberista della "crescita", ma la renda eticamente accettabile grazie all'uso eufemistico dell'aggettivo "sostenibile". Il suo significato figurato è d'altra parte rivelatore: "suscettibile di essere mantenuto o continuato". Ennesimo mutamento di pelle del capitalismo cosmopolita (3).

Quale sostenibilità? 

Non è un caso. La società nella quale l'idea stessa di sostenibilità è stata dapprima rigettata, quindi recuperata e infine rielaborata, non riesce a fare un passo a lato rispetto ai presupposti impliciti del suo cammino. Avanza in modo lineare anche quando parla di circolarità. Difetta di quella prudenza, di quella circospezione storicamente sollecitata dalla filosofia. Al di là della marginalizzazione impostale dalla tecnocrazia, la filosofia, però, non ha che da biasimare se stessa per questo suo svilimento. Se è stata capace di riconoscere l'artificio della metafisica sottesa a ogni scienza, arrivando a decostruirla sino alla rimozione di qualsivoglia fondamento, o arché, non ha accettato di compiere il gesto più estremo: "vivere di paesaggio" (4), anziché di logos.

Messa all'angolo della filosofia

Vivere di paesaggio? Prendiamoci una pausa. Sì, la filosofia ha interrogato e problematizzato il logos come potere ordinante della parola che rischiara, come verbo divino, come discorso o ragione, ne ha riconosciuto i limiti e le illusioni, ma ogni volta è tornata a ricostruire dalle sue macerie. Filosofia e logos, nella tradizione occidentale, non possono essere di fatto disgiunti. Sono simbiotici. La filosofia è e resta logos: senza logos, semplicemente non si dà filosofia (5). Certo, la filosofia è pronta ad ammettere la possibilità di saperi altri, di differenti esercizi di senso, ma per riconoscerli in quanto tali ha comunque bisogno di esprimerli attraverso il rigore del logos. Scrive acutamente Carlo Sini: "Alimentandosi dalla sorgente parmenidea, di certo non ancora esaurita per noi, la tradizione ha costruito l'idea di un nous e di un logos soprasensibili caratterizzati dai segni della verità di ciò che è: pensiero, discorso e realtà, come vertici di un triangolo nel quale ancora si iscrivono le nostre strategie di sapere; sapere che mira alla verità "oggettiva", cioé panoramica, universale, pubblica, capace di assimilare apeònta e pareònta: le infinite distanze nello spazio e nel tempo. Verità cosmo-storica che ancora appare a noi come l'unica possibile e meritevole di stima «scientifica»" (6).

Questione di metodo

Per spiegare questo inestricabile rapporto, occorre allora tornare - una volta ancora - al rivoluzionario gesto compiuto nel VI secolo a. C da Parmenide di Elea. Di ogni via (hodòs, nell'originaria etimologia greca) al sapere, la filosofia fa questione di metodo (metà-hodòs, attraverso-via). Una via "del" sapere. Per Sini, non c'è un sapere filosofico che non sia coessenzialmente, e forse addirittura in primo luogo, problema del metodo. "La filosofia è un sapere che perviene a se stesso solo in quanto si propone come un metodo". Affronta l'ignoto forte delle sue domande a effetto boomerang, della sua grammatica combinatoria e di una logica inflessibile, come idra dalle mille teste moltiplica i suoi punti di vista, ma non è disposta a lasciare la presa. A farsi inghiottire. Ad accettare l'ignoto con quell'amor fati nietzschiano che potrebbe sancirne l'oblio, o forse svilupparne proprio una diversa forma di panoramicità. 


Chiusi in un circolo

Di fronte a questo supremo sacrificio della razionalità, la filosofia alza lo scudo: per preservare il suo peculiare sguardo, il suo theorein, non può fare a meno dell'ordine del discorso (7). Concede di non avere un'io, di essere uno, nessuno e centomila, ma ha il bisogno viscerale di spiegare persino il proprio dissolvimento. Tragica, dunque eroica. Vuole essere presente e testimone del momento stesso della sua possibile scomparsa. Questa è la soglia che più teme ma da cui pure è affascinata, perché è la soglia attraverso cui ha potuto riconoscersi: quella dell'essere e del non essere (8). Resistendo alla semplificazione di ogni possibile aut aut, ha gradualmente preso consapevolezza del divenire dell'essere, non potendo però fare a meno di svilupparlo fra due estremi-limite: da una parte, il puro essere "senza nessun'altra determinazione" in opposizione al puro nulla come "completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso"; dall'altra, l'Idea assoluta come "concetto razionale che nella realtà sua si fonde solo con se stesso", "unico oggetto e contenuto della filosofia" (9).

Estremi che, nella loro paradossalità, possono essere risolti solo come momenti della dialettica della Ragione, chiudendo perciò l'orizzonte della filosofia nel cerchio del senso. Non esiste alcuna via d'uscita, dunque? Siamo condannati a un eterno ritorno ermeneutico rispetto a tutto ciò che possiamo conoscere? Sì e no. Il rischio sempre più alto di annientamento della specie umana, apparentemente prigioniera più della sua componente "animale" che "razionale", può forse essere scongiurato imboccando la via che riporta ad Aristotele e alla sua celebre definizione dell'uomo come "animale razionale" (10). In casi di pericolo estremo, le neuroscienze hanno infatti mostrato come emerga in modo ben più lampante la detronizzazione della "ragione" dalla regia dei nostri corpi, a favore di un "inconscio" capace di guidarci, se non in salvo, almeno verso la più efficace delle possibili risposte di sopravvivenza (11).


Vivere di paesaggio


In termini più tradizionali, per la filosofia si tratta di tornare a esplorare il suo peculiare "amore", la sua philia (12) verso la sapienza, anziché tentare di spiegare la philia attraverso le verità transeunti del suo sapere. Un'esplorazione, dunque, che non deve votarsi solo alle confortevoli abitudini discorsive del logos, ma dedicarsi a quell'attività che, per secoli, ha fornito al logos ciò di cui parlare: il camminare, "pratica dello choc" (13) nello spazio del "tra", il paesaggio. "Che cosa valorizza, effettivamente, un paesaggio?" - si chiede François Julienne, nel suo saggio "Vivere di paesaggio". "...ci sono quelli che "attraversiamo", quelli che "contempliamo da lontano", quelli in cui/che "passeggiamo", quelli che "abitiamo". Ma i paesaggi che attraversiamo e contempliamo da lontano "non valgono" quelli in cui evolviamo facilmente o in cui amiamo soggiornare. Tra "attraversare" e "passeggiare" c'è la stessa differenza che passa tra "guardare da lontano" e "abitare". Ovviamente è perché i primi restano ancora esterni, mentre i paesaggi nei quali si cerca piacere nel passeggiare o nell'abitare sono diventati milieu, un ambiente, qualcosa di pregnante: si è nel proprio elemento. Vale a dire, un passo più oltre: ciò che fa paesaggio non si riduce al percettivo ma si promuove in luogo di scambi che lo rendono intensivo" (14).


Il richiamo è al vivere il paesaggio di cui l'uomo stesso è fatto e attraverso cui si fa, senza l'urgenza di dover arrivare a una definizione del chi, del come o del perché. Occorre piuttosto riconoscere le tensioni, le forze vettoriali che attraversano il dove, così come il quando, prima di ogni categorizzazione del "fuori" e del "dentro", del "prima" e del "dopo": vivere è restare immersi nell'inesauribile processualità dalla quale non facciamo altro che isolare figure di senso, a partire dal nostro stesso ethos. "Dobbiamo risalire ancora più in alto, al di qua, nella questione del pensiero. Ma intuiamo che incontreremo una certa difficoltà a pensare questo «per mezzo di cui» (a partire da cui) io penso, anche al di qua di questo «a cui» penso; intuiamo di poterlo affrontare solo in modo indiretto, non metodicamente (cartesianamente) ma in maniera «scaltra», di poterlo raggiungere solo deviando, disarenandoci, perché «dubitare» non basta (sappiamo poi di cosa dovremo dubitare?). Intuiamo, dunque, di poterlo affrontare solo di traverso, per scarto e strategicamente, poiché è proprio questo che mi serve per pensare. Sondare la nozione di paesaggio ci porta così a tornare su ciò che ha organizzato il pensiero nella sua attività, in Europa" (François Julienne, "Vivere di paesaggio", p.16). E potremmo aggiungere, percorrendo ancor più a ritroso la storia dell'Occidente: neppure "meravigliarsi" basta più. Finiremmo per restare intrappolati ancora nella proiezione dello sguardo "logico", con i suoi inevitabili distinguo. 

Camminare per mettere radici 

Il motto dell'homo novus, ben diverso dagli ibridi cyborg su cui la digitalizzazione è già da tempo al lavoro con perverso compiacimento, potrebbe allora suonare così: deambulo, ergo cogito. Ma è una tentazione da rifuggire subito. Non può esistere (ancora) un paesaggio "dentro" il quale cammina un soggetto, perché è il movimento stesso, la kìnesis (15) delle ancora in-determinate forze vettoriali, a farsi paesaggio nella sua temporalizzazione. La lingua cinese riesce a esprimere questa complessità con un'immediatezza disarmante: la "cosa" è "est-ovest", correlazione tra opposti. Il "paesaggio" è "montagna-fiume". Se non è dato alcun punto iniziale, alcuna base privilegiata "su cui" costruire l'individualità, la domanda circa l'origine scaturisce inevitabilmente decentrata. Per Roberto Marchesini, "la vita fa riferimento a qualcosa di esterno, ovvero si fa normare da qualcosa che non è presente all'interno dell'ente o perché collocato nell'ambiente di vita - che in realtà non è mai semplice collocazione del vivente - o perché aderisce a direttive causali che vanno rintracciate nel passato - come se il fenomeno vita ricordasse una sorta di eco o, meglio, di mareggiata di risonanze - o, ancora, perché il suo presente è elusivo, non ci è dato un fermo-immagine senza ucciderla, giacché il vivere è sempre una proiezione in una condizione le cui coordinate non rispondono ai requisiti di partenza" (16).

Non sarà più l'astratta contrapposizione tenebre-luce a dischiudere lo spazio di movimento del soggetto, ma sarà invece la loro intensità a influire sulla formazione di un soggetto di volta in volta diverso, irriducibilmente unico. Non sarà la contrapposizione silenzio-suono a disegnare le profondità dell'udito, ma il loro tono. Non sarà il capezzolo a contatto con le labbra a distanziare e a dar forma alla materia organica, ma la sua consistenza, il suo peculiare sapore e odore, che già si sviluppano prima della scissione madre-figlio. Anche nel caso di minime modulazioni di queste vettorialità, l'effetto comporterà differenze qualitative enormi nel processo di sviluppo. Come spiega Baeu Lotto, "la corteccia cerebrale diventa più complessa in un ambiente «arricchito» - e meno complessa in un ambiente «deprivato» (...). Il cervello viene modellato non solo durante l'età dello sviluppo, ma durante l'intero corso della vita, generando grandi cambiamenti nella percezione" (17).

Le trasformazioni silenziose

Vivere queste "trasformazioni silenziose" (18), ancor prima di coglierle e descriverle, è un abito di cui non possiamo privarci, a costo di annullare la nostra unicità e, in ultima istanza, la nostra capacità creativa in quanto esseri umani. Ne va, cioé, della possibilità di elaborare risposte non semplicemente innovative ed efficaci (vie di riuscita). Di trovare, oltre ad esse, vie di uscita. In ultima istanza, di produrre strategie di sopravvivenza rispetto a quelle vettorialità che impediscono, deviano o addirittura possono annientare la kìnesis organica. "Perciò: cambiamo l'ambiente e cambiamo il nostro cervello. Questa è la conseguenza/importanza del continuo coinvolgimento con il mondo esterno" (19).


Evitando di scivolare nelle ingenuità dualistiche che continuano ad abitare le neuroscienze, diventa però più chiara la differenza fra sostenibilità e filia. La prima è concepita come un processo osmotico: funziona per "compensazione" in un sistema meccanico chiuso su se stesso, ma non riconosce quelle "trasformazioni silenziose" che fanno dell'ambiente, per quanto totalizzante, un paesaggio aperto. Vivo. Un mondo nel quale la dimensione adattiva può essere estetizzata attraverso la sua narrazione, permettendo di elaborare risposte adeguate al benessere non dell'uomo in generale, ma di ogni unicum in divenire. Bio-filia, dunque, come "amore per la natura, per tutto ciò che è vivente", come "bisogno umano di legarsi agli altri esseri viventi" (20).

Dalla filosofia all'odosophia

Questa filosofia "vissuta" nell'interezza del corpo-mondo (ambiente), di un corpo emancipato da qualsivoglia artificio deprivante grazie al suo farsi paesaggio, può esprimere la propria "bio-filia" solo se resta in movimento. Se cammina per il mondo, evitando di richiudersi nelle aule del sapere. Se si infanga e si sporca di polvere per preservare la vita. Se agisce politicamente. Se trema di fronte a un dirupo e sa trovare un passaggio quando ogni sentiero è interrotto. Se permette, consapevole della propria kìnesis, il costante aprirsi di strade come possibilità ancora inespresse del divenire, o meglio dell'essere-via. Strade che si manifestano anche e soprattutto come errore, in quanto frutto di erranza, dunque di trasformazione. Questa filosofia dell'esplorazione dei limiti, in costante oscillazione fra il "primo" e il "terzo paesaggio" (21), capace di modulare l'uomo al flusso della vita e della morte, di liberarlo dalla manipolazione economica e mediatica, da ogni sorta di condizionamento strumentale, trasformandolo in veicolo del suo inesauribile potere generativo e creativo, ha infatti un nome che invita a mettersi in cammino sin da qui e ora: odosophia.

Note

1) Nel commentare il progetto illustrato ne "L'Utopia sostenibile" di Enrico Giovannini, il critico Corrado Augias riprende le parole dell'autore sostenendo "Parrebbe un'utopia, ma è l'unica possibilità sostenibile" (https://asvis.it/home/46-2866/le-presentazioni-di-lutopia-sostenibile-e-il-commento-di-augias#.XDMlDc9KiRs). Analogamente Roberto Fico, Presidente della Camera, ha affermato nel suo discorso in Parlamento del 13 giugno 2018 sugli obiettivi dell'Agenda 2030: "Sono sfide straordinarie che il nostro Paese e l'Ue devono affrontare, perché questa è l'unica via per garantire un benessere durevole ed equo alle prossime generazioni. L'alternativa sarebbe una profonda crisi ambientale, economica, sociale del mondo intero").

2) "Pensare altrimenti", di Diego Fusaro, Einaudi, 2017

3) A titolo introduttivo, si veda l'articolo di Serge Latouche: https://comune-info.net/2017/02/il-mondo-non-e-una-merce-decrescita/

4) Cfr "Vivere di paesaggio, o l'impensato della ragione", di François Julienne, Mimesis Edizioni, 2017

5) Per una riflessione critica sul tema, si rimanda all'articolo di Valeria Ascheri: https://forum-phil.pusc.it/articoli/v01-a26

6) "Il metodo e la via", di Carlo Sini, Mimesis Edizioni, 2013

7) "L'ordine del discorso", di Michel Foucault, Einaudi, 2004

8) "Sulla natura", di Parmenide, Bompiani, 2001

9) "Scienza della logica", di Georg W. F. Hegel, Laterza, 2008, Sez. III, L'Idea, Cap. III, L'idea assoluta, p.935. Per la messa in moto del processo dialettico, vedi anche Sez. I, Qualità, Cap. I, C. Divenire, 1. Unità di essere e nulla. p.71 "Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere , - non passa - ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere. In pari tempo, però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch'essi non son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell'immediato sparire dell'uno di essi nell'altro: il divenire; movimento in cui l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta". E ancora, a p.74: "Essere e non essere sono lo stesso; dunque è lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia e non sia, che questi cento talleri siano, o non siano, nel mio patrimonio. Questa conclusione o applicazione di quella proposizione ne cambia completamente il senso. La proposizione contiene pure astrazioni dell'essere e del nulla; l'applicazione, invece, ne fa un determinato esser e un determinato nulla".

10) "Politica", di Aristotele, Laterza, 2007. Per una ricostruzione genealogica della definizione, cfr. anche https://www.filosofico.net/antr0opol0oologimethis.htm

11) "Il funzionamento delle vie dirette e indirette potrebbe fornire una base fisiologica alla teoria di James-Lange secondo cui un sentimento cosciente, mediato dalla corteccia, si verifica dopo una risposta del corpo, non prima. Il primo passo sarebbe costituito dalla valutazione rapida, automatica, inconscia del valore emotivo di uno stimolo da parte dell'amigdala, che lancia e orchestra le adeguate risposte fisiologiche. L'ipotalamo e il sistema nervoso autonomo eseguono quindi le risposte inviando istruzioni dettagliate al corpo. Le risposte avvengono all'interno non solo del cervello, ma anche del corpo". "L'età dell'inconscio", di Eric R. Kandel, pp. 353-354, Cortina Raffaello, 2016

12) Circa le complesse stratificazioni di significato dell'originario termine greco, è di aiuto lo studio di Silvia Gullino in "Philia", Unicopli, 2017. Cfr anche: https://www.filosofiablog.it/storia-filosofia/incipit-philia-e-inizio-2/

13) "La passeggiata di Kant", di Roger-Pol Droit, Ponte alle Grazie, 2017. «La marcia filosofica comincia sempre con una messa in discussione, una perplessità. Una domanda, un dubbio scuotono ciò che si riteneva certo. Eravate tranquilli, fermi nelle vostre convinzioni. Non lo siete più, nel momento in cui un dubbio comincia a far vacillare quelle evidenze. Questa pratica dello choc è quella dei filosofi, fin dall'Antichità»

14) p.57-58, da "Vivere di paesaggio, o l'impensato della ragione", Mimesis Edizioni, 2017

15) "La mente e il corpo", di Carlo Sini, Cuem, 1998. "Il mondo non è "fuori" dal corpo-organismo (che è a sua volta mondo), così come l'anima non è "dentro" l'organismo, ma è piuttosto la sua periferia senziente, la sua periferia "mobile" (kìnesis e aisthesis). L'anima è al confine del corpo (sulla punta delle dita, diceva già il Kant precritico), è il suo limite. Nel contempo, il mondo è rivelato come mondo al confine (al limite) del corpo" p. 65

16) p.115, da "Eco-ontologia", di Roberto Marchesini, Apeiron, 2018

17) p.96, da "Percezioni", di Beau Lotto, Bollati Boringhieri, 2017

18) "Le trasformazioni silenziose", di François Julienne, Raffaello Cortina Editore, 2010

19) p.94, da "Percezioni", di Beau Lotto, Bollati Boringhieri, 2017

20) p.16, da "Effetto biofilia", di Clemens G. Arvay, Macro, 2017

21) "Manifesto del Terzo paesaggio", di Gilles Clément, Quodlibet, 2005