3.8 Limiti della democrazia fra segreto e informazione
Mettere in discussione il modello conoscitivo occidentale significa minare il modello democratico, perché fondato sulla necessità del segreto per riconoscere e livellare le differenze. Nello scoprirsi anarchica, la conoscenza spinge a ripensare una società capace di valorizzare diritti e libertà senza cedere alla morsa del controllo
(se non letto prima, si rimanda al post "3.7 Il sesso e la strategia del segreto")
Controllo non significa (solo) sorveglianza. Eppure il modello conoscitivo elaborato dall'Occidente non riesce a svicolarsi da questa pericolosa equazione, avendo di fatto sovvertito i tradizionali rapporti di dipendenza fra tecnologia e scienza. Alle procedure di verifica, finalizzate a confermare o rigettare la validità di una conoscenza, sono oggi anteposte esigenze di esclusione di ogni devianza dalla norma, al fine di raggiungere la massima capitalizzazione del risultato acquisito. Sapere, praxis e mercato non occupano più piani distinti, per quanto interdipendenti, ma si innestano gli uni sugli altri inibendo configurazioni alternative, con la stessa rigidità di chi sa che un solo tassello rimosso potrebbe decretare il crollo dell'intero complesso.
A prescindere dalle possibili e necessarie valutazioni giuridiche (cfr. S. Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Roma-Bari, 1997; oppure S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari, 1999), appare sempre più chiaro che la questione del controllo e dell'autocontrollo abbia implicazioni decisive per la tenuta democratica della nostra società. D'altra parte studiosi come David Lyon, fra i primi ad aver scritto in merito alla "società dell'informazione" (D. Lyon, La società dell'informazione, Il Mulino, Bologna, 1991), hanno colto immediatamente i rischi insiti nel modello di sviluppo occidentale, finendo tuttavia per focalizzare le proprie ricerche sul tema della privacy e della filosofia della sorveglianza (D. Lyon, L'occhio elettronico, Feltrinelli, Milano, 1997). La domanda cui invita Foucault è ancora più radicale: è possibile una conoscenza "anarchica", priva di gerarchizzazioni e dunque preservata dall'inevitabilità di trasformare il controllo in sorveglianza?
Innanzitutto è bene chiarire e ribadire che il controllo non è soltanto quello esercitato da un potere esterno a noi, ma anche e soprattuto quello che introiettiamo attraverso le nostre pratiche e che riconosciamo più direttamente nell'autocontrollo. A questo proposito Lyon e altri hanno rilanciato il tema foucaultiano del panopticon, inteso come struttura di potere onnipresente e inafferrabile che si basa sulle pratiche di auto-osservazione da parte dei singoli soggetti. Per meglio comprendere il funzionamento di queste pratiche la loro indagine ha però scelto di basarsi in prima battuta sulla privacy, in particolare sulla sua versione aggiornata di "non comunicazione" (in quanto auto-controllo esercitato sulla circolazione dei propri dati). Il segreto tattico, per Lyon, risulta infatti una modalità di risposta atta a incrementare la trasparenza, ma destinata a portare al blocco della comunicazione. Al contrario, per sottrarsi al controllo, servirebbe una non-comunicazione che non sia un "più di controllo". Una non-comunicazione come quella teorizzata e praticata da uno dei padri (in realtà non troppo ascoltati) delle odierne teorie della comunicazione: Gregory Bateson.
Per il sociologo britannico informazione e comunicazione richiedono sì una componente di non-comunicazione e di non-sapere (Bateson la chiama il "sacro" o, meglio, la "segretezza"), ma nella dimensione della "non-padronanza". Questo elemento opaco, non controllabile, garantirebbe infatti la flessibilità ideale di un sistema di parti comunicanti. Fra gli esempi chiarificatori portati da Bateson, uno dei preferiti fa riferimento alle disavventure dell'antropologo Sol Tax con un gruppo di indiani americani nei dintorni di Iowa City. Alcuni loro rituali prevedevano l'impiego della pianta allucinogena del peyote, ragion per cui la "chiesa" indigena si trovò presto sotto accusa. Sol Tax ebbe l'idea di filmare la cerimonia per testimoniarne il carattere puramente religioso, ma anziché pregare sotto l'occhio delle cineprese, gli indiani preferirono correre il rischio di non poter più pregare e si opposero vivacemente al suo utilizzo. Per Bateson la storia di Sol Tax ha da insegnare ancora molto sui margini di segretezza che non possiamo, né dobbiamo controllare. Su quella non-comunicazione che si sottrae alla regolamentazione dei flussi.
La segretezza fu quasi un'ossessione per Bateson, tant'è che la figlia - proprio per il suo costante parlarne - cominciò a prenderlo in giro prospettandogli un futuro di addetto stampa per il Pentagono (col padre fu fra l'altro coautrice di Dove gli angeli esitano, Adelphi 1989, il libro in cui Bateson ha scritto maggiormente di segretezza e dintorni). Eppure, obiettava Bateson, il punto caldo è proprio questo: segretezza non significa controllo. Anziché spendersi nella morale della storiella di Sol Tax (di esplicitarne, e dunque controllarne, il contenuto nascosto, il segreto), Bateson scelse di infilarla in una serie di altre storielle sulla non-comunicazione: solo dal loro accostamento, a suo avviso, può emergere il modo di questa non-comunicazione, il suo essere non padroneggiata, né padroneggiabile. Un'altra storia che Bateson accostava volentieri a quella di Sol Tax riguarda la figura biblica di Giobbe, anch'egli impegnato a difendere a tutti costi la sua idea di "privacy": essere lasciato in pace. La ragione della sua rabbia verso Dio fu appunto questa. Ma Dio lo spiazzò, chiedendogli conto di un segreto: «Lo sai tu, Giobbe, quando figliano le camozze?». Se Giobbe avesse risposto, avrebbe dato prova di voler controllare il segreto. Non rispondendo, d'altra parte, Giobbe avrebbe ammesso la possibilità di non sapere proprio nulla, né delle camozze, né tanto meno del loro segreto. In un certo senso, Dio lo aveva provocato suggerendo di mettersi nei propri panni.
Qui il segreto di Giobbe si rivela "mobile" come quello di Pulcinella, ma, a differenza di quest'ultimo, non semplicemente per una questione di astuzia strategica. Opera di nascosto, senza saperlo fino in fondo. Sfugge al controllo e così facendo è una non-comunicazione che riesce a non bloccare la comunicazione. Anzi a favorirla. Non che il segreto di Giobbe escluda il segreto di Pulcinella: si limita a sospendere di tanto in tanto l'efficacia dei suoi trucchi e a evitare in tal modo che anche i nostri segreti, fluttuando in rete o circolando per gli spazi liberi della società della conoscenza, diventino troppo auto-controllati e dunque troppo trasparenti.
Possiamo allora tornare al punto di partenza con qualche elemento in più a nostro favore.
L'esibizione delle forme di controllo, a uno sguardo più attento, muove dalla necessità di garantire un panoptismo/synoptismo che scardini i meccanismi del potere disciplinare, imprescindibilmente legato al segreto e conseguentemente a una forma istituzionale non democratica, seppur idealmente fondata sull'uguaglianza e la trasparenza (onde favorire un controllo che parifichi ogni possibile divergenza). Un controllo così inteso, pur discendendo dal potere, sorgerebbe in realtà per prevenirlo ed eliminarlo. Ancora una volta siamo di fronte a una lotta per affermare l'uguaglianza della legge per tutti ("ucciso Dio, chi può confidare sulle virtù morali dell'Ispettore?"). La democrazia, infatti, non può tollerare la radicalità della differenza. Tutto deve essere risolto nella sintesi parificante. Per sottrarsi al controllo non serve allora ritagliarsi spazi di privacy. Significherebbe solo dare man forte agli squilibri del potere: in quanto in-violabili, tali spazi diventano violabili per definizione, perché contemplano la possibilità di essere violati nella loro stessa istituzione.
Ci troviamo agli antipodi, ma in termini simmetrici, rispetto a quel gesto di suprema trasgressione che è l'atteggiamento di Edipo in merito alla propria scomparsa. L'antico re tebano impose di calare il silenzio e il segreto sul suo luogo di sepoltura: anzi, fu proprio l'assenza infinita, l'invisibilità del suo luogo di sepoltura, a permettere che non ci si potesse dimenticare mai di lui. Derrida dice che egli scelse di "incriptarsi due volte", quasi ci fossero due luoghi, due eventi, due momenti dell'aver-luogo: "...una volta nel morire, perdendo una luce che aveva già perduta, vedendosi privato di una luce di cui era già privato, un'altra volta nell'essere sepolto in terra straniera, non soltanto lontano, bensì in un luogo inaccessibile" (J. Derrida, Sull'ospitalità, op.cit. p. 102). Sottraendosi attraverso l'al di là, Edipo non fece altro che scegliere di concedersi all'interminabile lutto di chi resta al di qua. Come vedremo più avanti, questa strategia coincide con la pubblicità del sé che, oggi, si fa non-luogo, utopia dell'identità, con l'obiettivo di sottrarsi alla morsa del Medesimo dandosi all'Altro. Il segreto, in definitiva, consiste nel simulare il reale. Offrirsi all'azione naturalizzante dell'occhio, divenire - in termini derridiani - ospitati dell'ospitante (l'ospite), ma in modo tale che, nel momento in cui quest'ultimo solleva la domanda sulla nostra identità, di riflesso sia possibile elaborare una risposta "seconda" che ci preservi dal divenire il Medesimo, illuminando la radicalità del nostro essere Altro.
Se quest'analisi prova a cogliere ciò che sta al di là dell'occhio dell'ospite, parimenti dovrebbe però mettere in luce ciò che accade all'interno dell'occhio non trasgressivo, di colui che già sta al di là della soglia. Non ci sarebbe alcun ospite, alcuna esortazione al venire e all'entrare nel sé, o, ancor meglio, non ci sarebbe alcun sé, se non a partire da una trasgressione assai più originaria. Quando qualcosa si dà a vedere è solo e sempre nel suo intrinseco oltre-passare, poiché la visione è di per sé passiva, laddove decontestualizzata dalle pratiche di vita. La produzione del visibile scaturisce infatti da un'attività: spingendo a focalizzare l'attenzione su specifici dettagli, è possibile attuare una strategia alternativa che sfrutta l'inevitabilità stessa dell'adombramento. Al di là del gioco di parole, se è pur vero che non ci si può sottrarre dall'essere visti, resta ancora da vedere cosa verrà dato a vedere.
Appare allora chiaro che il progetto di una società egualitaria e democratica porta alla vanificazione di qualunque Principio, alla disgregazione di qualsivoglia valore assoluto (che, essendo "ab-soluto", "sciolto", può godere della certezza dell'eternità contro il prospetticismo del continuum): crea uno sdoppiamento del reale che spaccia per vero ciò che è stato evocato attraverso la menzogna del visibile (al di fuori dei giochi di potere, il visibile non è mai un vedere, ma un far vedere in conformità alle aspettative riposte nel controllo. Ne sanno qualcosa gli intellettuali sovietici "allineati", vissuti negli anni della Stagnazione).
Se nel potere-disciplinare è l'unità che scandisce il doppio, cioè il Medesimo che viene spacciato per l'Altro, nel potere-controllo è invece l'origine che si rifrange nel doppio, offrendosi apparentemente nella compiutezza dell'unità. A questo mutamento teoretico non è d'altra parte estranea la "crisi del soggetto", la cui esplosione pulviscolare mette tanto in ansia la filosofia contemporanea. Eppure è stato proprio il sogno dell'unità identitaria a causare il suo frazionamento: inutile parlare di crisi morale o dei valori, oggi, perché siamo semplici testimoni di un'evoluzione della teoresi. E, malgrado tutto, testimoni della produzione di nuovi valori: dipende solo dalla direzione verso cui volgiamo lo sguardo. (continua 3.9)