2.0 L'anello di Gige
Se esiste un limite che pregiudica inevitabilmente la verità della parola e della cosa, il potere non può che accettare la propria morte o riconoscere la propria subalternità. Dilemma che già Platone aveva provato a sciogliere senza successo, muovendo dall'intrigo del re Candaule e della sua fida guardia del corpo
(se non letto prima, si rimanda al post "1.9 Il visibile-invisibile come fondamento del potere"
Prendere coscienza dei rapporti fra enunciato e visibilità riconduce l'uomo a familiarizzare col senso del limite. Se ogni formazione storica vede e fa vedere tutto ciò che può, in funzione delle sue condizioni di visibilità, al tempo stesso dice tutto ciò che può in funzione delle sue condizioni di enunciato. Nessun segreto, dunque, nessun mistero, benché nulla sia immediatamente visibile o direttamente leggibile: il linguaggio "contiene" parole, frasi e proposizioni, ma mai gli enunciati che sono disseminati in base a distanze irriducibili. Valga per essi l'esempio della luce, che "contiene" gli oggetti ma non le visibilità.
È proprio Deleuze ad affermare che le visibilità generano attraverso le loro condizioni una "ricettività", mentre gli enunciati, con le loro, una "spontaneità": spontaneità del linguaggio, dunque, e ricettività della luce, senza però attribuire alla prima il carattere d'attività e alla seconda quello di passività. Il problema è semmai quello del co-adattamento di due forme, o di due specie di condizioni, che differiscono in natura. "Parlare non è vedere": fra loro non c'è isomorfismo, eppure sussiste una presupposizione reciproca.
Impossibile definire il vero per conformità o in virtù di una forma comune, né tanto meno attraverso una corrispondenza fra le due forme. Tra parlare e vedere, tra il visibile e l'enunciabile, c'è disgiunzione: "ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice", e viceversa. Foucault non smette di scriverlo e ripeterlo, a riprova della difficoltà di assimilazione per il senso comune. L'enunciato ha un proprio oggetto correlativo, ma non è una proposizione che designa uno stato di cose o un oggetto visibile, come vorrebbe la logica; il visibile non è invece un senso muto, un significato potenziale che si attualizza nel linguaggio, come vorrebbe la fenomenologia. L'audiovisivo, in quanto archivio spazio-temporale, resta disgiutivo. Fra le sue manifestazioni più emblematiche, il cinema offre sicuramente una piano di riflessione privilegiata (ancora una volta si rimanda agli studi di Paul Virilio).
"Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi"
(M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 23).
Gli enunciati e le visibilità si stringono fra di loro come lottatori, si forzano fra loro e si catturano, costituendo ogni volta quel che definiamo frettolosamente "verità". Insieme compongono niente più che uno "strato" di tracce; e, passando da uno strato all'altro, continuano a trasformarsi (anche se non con le stesse regole). L'allacciamento instabile fra questi due termini implica la stessa distanza attraverso cui gli avversari "scambiano le loro minacce e le loro parole", tant'è che il luogo dello scontro finisce per rivelarsi un "non-luogo", a riprova del fatto che gli avversari non appartengono mai allo stesso spazio, né dipendono dalla stessa forma (M. Foucault, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988, pp. 46-48).
Occorre allora individuare una dimensione diversa dallo "strato", una terza dimensione informale che aiuti a rendere conto della composizione stratificata delle due forme. Questa terza dimensione non fa però appello all'invisibile, come lascerebbe indurre una logica dei correlati, perché
"il visibile e l'invisibile sono esattamente lo stesso tessuto, la stessa indissociabile sostanza. Luce e ombra sono lo stesso sole. L'invisibilità del visibile consiste nel suo essere puramente e semplicemente visibile. E la sua assoluta trasparenza deriva da quel non svelamento che la lascia sin dall'inizio nell'ombra. Ciò che nasconde ciò che nascosto non è, ciò che svela ciò che non è svelato - ecco che cos'è il Visibile stesso"
(M. Foucault, Raymond Roussel, Ombre Corte, Milano 2001, p. 126).
L'enigma del visibile/invisibile consiste nel fatto che se ne può parlare partendo non da esso, ma solo dal fondo della distanza che prescrive o permette l'invisibile: il potere. Muovendo dalla soglia del nuovo millennio, un paradosso del genere ci proietta ben oltre Jeremy Bentham e il suo Panopticon, direttamente al cuore della classicità greca, nella storia di Gige raccontata da Platone ne "La Repubblica".
La sua storia è infatti narrata dal punto di vista di un invisibile. Invisibilità controllata e asimmetrica - per Platone come per Bentham - significa semplicemente potere. Questa invisibilità non è però lo strumento di un potere assunto come istituzionale, benevolo e legittimo: essa stessa istituzionalizza e legittima il potere che nasce attraverso la trasgressione. Soffermandoci un attimo ancora sul testo benthamiano, risulta d'altra parte evidente che fra carcerieri e carcerati non si dà alcuna differenza morale, bensì una differenza "tecnica"; e se l'unica garanzia di giustizia è la consapevolezza della sorveglianza, sottrarsi alla sorveglianza non significa allora sottrarsi alla giustizia, ma mettersi in condizione di acquisire un potere non controllato. Un potere, a suo modo, creatore di valori, degno del Superuomo nietzschiano. Un potere autofondante. Il Panopticon può essere dunque pensato come l'esito istituzionale del famoso anello di Gige.
Nel testo della Repubblica di Platone, quando Glaucone chiede a Socrate di dimostrare perché dovremmo essere giusti quando non si è sotto lo sguardo di chi ci controlla, propone, a distanza di più di due millenni, una sfida anche per Bentham. Chi ci assicura che l'occhio del carceriere invisibile sia paragonabile all'occhio di Dio, se la sorveglianza resta la manifestazione esclusiva della giustizia? Si tratta della medesima obiezione ("si vede solo la superficie dell'uomo") che gli 'spiritualisti' settecenteschi ponevano all'adozione politica del Panopticon, in sostituzione delle tradizionali colonie carcerarie di rieducazione (che al contrario aiutano il prigioniero o il carceriere a scavare nella coscienza).
Bentham e Gige richiamano un soggetto che, quando è invisibile, è ingiusto, immorale e impolitico, ma che diventa giusto, morale e politico nel momento in cui è reso visibile. Il potere consiste nel controllo della visibilità, e, in quanto tale, si caratterizza come punto cieco fuori controllo. Persino coloro che puntano a regolare il potere limitandone il privilegio prospettico e invocano perciò il mantenimento di una sfera "privata", nascosta al pubblico, accettano implicitamente la logica di Gige e di Bentham: siamo liberi dove e quando non siamo sorvegliati.
Se la giustizia è intesa come funzione "di sorveglianza" esclusivamente pubblica, il nostro spazio "privato", sottraendosi allo sguardo, non può che sottrarsi alla giustizia. Per converso, lo spazio pubblico della soveglianza non diviene altro che uno spazio di timore e di conformismo. Una giustizia in grado di sopravvivere alla provocazione dell'anello di Gige - l'anello che dona l'invisibilità e l'accesso al segreto altrui - alimenterebbe non solo la virtù della relazione (che si esercita nel campo della visibilità), ma anche e allo stesso tempo la virtù interiore (che si genera nel campo dell'invisibile). Rendersi visibili non sarebbe allora una mera questione di tecnica di potere - com'è per Bentham e Gige - ma una questione propriamente politica e morale.
Per entrambi lo spazio della pubblicità appare infatti uno spazio d'imposizione, da cui possono sottrarsi solo coloro che riescono a padroneggiare la propria visibilità e invisibilità. Questo controllo comporta tuttavia un potere senza limiti e senza garanzie. Di contro, chi sapesse essere giusto senza essere sorvegliato, finirebbe per porsi ben altre domande: perché scegliere di rendersi visibili? Esiste una dimensione pubblica che non sia solo imposizione e potere?
Socrate e Kant risponderebbero che rendersi invisibili serve in realtà all'uomo per imparare a riconoscere i propri limiti. Uno dei principali problemi della Repubblica di Platone, invece, ruota attorno alla possibilità che la visibilità sia resa interamente pubblica e politica. Al di là delle tradizionali interpretazioni sull'estensione del panoptismo, tendenti a svilupparsi in chiave di giustizia politica, a noi interessa riconoscere che il Panopticon e il panoptismo alimentano una peculiare forma di "teoresi" dell'uomo, proponendosi come strumento tecnicamente raffinato per conoscerne volti e personalità: in breve, per fondarne la soggettività.
Da un lato riscontriamo una tendenza a voler condurre tutto alla visibilità, punto d'osservazione incluso, nella speranza di poter controllare l'alea che pervade la vita o, in parole più semplici, svelare ciò che resta nascosto dietro l'occhio. Rifacendoci al racconto di Gige, potremmo parlare di desiderio originario, di quella forza oscura e nascosta che condiziona l'uomo indipendentemente dalla sua volontà.
Dall'altro, come già affermava Ludwig Wittgestein, constatiamo che "il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo" (Tractatus, 5.632). "Ove nel mondo, vedere un soggetto metafisico? [...] L'occhio in realtà non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio" (5.633). Lo sguardo, "a uno sguardo più attento", si rivela sempre in prospettiva, persino in una cella coperta da telecamere a 360 gradi: anche in una condizione tanto estrema, il punto di apertura della visibilità non può che restare celato all'osservatore. È quello, infatti, il luogo della sua possibilità e, in quanto tale, trascendente il corpo umano e la soggettività autofondante.
Cosa si nasconde, allora, nel gioco degli sguardi che si intreccia nella storia di Gige raccontata da Erodoto? Questa la situazione: il re Candaule desidera che il suo scudiero Gige contempli in segreto la nudità della propria moglie. Dispensa addirittura consigli su come appostarsi di notte dietro la soglia della camera da letto, affinché possa osservare la regina di spalle nel momento in cui si libera delle vesti. Il piano, però, non va a buon fine e la regina, colto Gige in flagrante, impone un'alternativa fatale: o morire, poiché Gige ha visto ciò che non avrebbe dovuto vedere, oltre a poter vedere ancora altre cose proibite; oppure sposare la regina e diventare re al posto di Candaule.
"Gige deve vedere senza essere visto; ma viene visto, perciò deve assumere il potere uccidendo. La regina deve essere vista senza vedere; ma invece vede, vede di essere vista, e allora diviene colei che conferisce il potere, determinando la possibilità ("il diritto") della violenza, privata (contro Candaule) e pubblica (il diritto del re di esercitare il potere sui sudditi)"
(Carlo Sini, La virtù politica, Cuem, p.78).
Il potere, dunque, è qualcosa che si trasmette, in quanto preesiste al soggetto? (continua 2.1)