2.5 La scrittura del tempo
Per esercitare un controllo sulla realtà o trasgredire i suoi limiti, occorre riconoscerne prima la dialettica dello sviluppo: unico e vero antidoto alla riduttiva logica delle opposizioni
(se non letto prima, si rimanda al post "2.4 Abissalità della trasgressione")
Se opporsi al costante fluire della vita è impossibile, all'uomo è data però la capacità d'interferire col suo processo di scrittura attraverso i corpi, così come nei corpi stessi. La chiave sta nel comprendere a fondo lo sviluppo della vita in quanto movimento dialettico, evitando che il potere la riduca a logica duale di mere opposizioni. Mai si dà bianco o nero, perché bianco e nero sono esattamente lo stesso, una volta mediati dal concetto.
È stato proprio Hegel a mettere ben in chiaro che cosa debba essere inteso per dialettica dello sviluppo:
un "superiore movimento razionale dove tali, che sembrano assolutamente separati, passano l'un nell'altro per se stessi, mediante quello che essi sono, e dove la supposizione [del loro essere separati] si toglie via. È appunto l'immanente natura dialettica dell'essere e del nulla, ch'essi mostrino la loro unità, il divenire, qual loro verità" (Scienza della Logica, op. cit., p. 98).
Più volte il filosofo di Stoccarda ha poi ripetuto che il divenire del pensiero non può mai essere stretto in pugno. In che modo, allora, Foucault pretende di poter alterare l'inevitabile fluire della vita? Non si corre forse il rischio di credere di aver in mano un destino che, non appena posto sotto il nostro sguardo sovrano e indagatore, riveli di essere tutt'altro rispetto a quanto avessimo supposto?
Ancor prima d'insinuarsi nell'alea della biologia dei corpi, potere e trasgressione si affrontano nel nostro sguardo, provando reciprocamente ad alterare le condizioni che ne determinano la prospettiva. Il risultato di questa doppia conflittualità, che si esercita attraverso il controllo o l'occultamento del dato, sono inaspettati black-out. Il mutamento viene infatti colto dal soggetto solo nel momento in cui la sua percezione difetta di continuità, perché privata della possibilità di prevenire l'irruzione dell'inaspettato. La risposta, in quanto atto di mediazione, va allora intesa come capacità di cui l'uomo si serve per assecondare l'ineluttabile dialettica dello sviluppo, evitando di esserne travolto e di sprofondare nelle possibili fratture dello spazio-tempo.
Può essere utile riprendere un esempio geometrico che lo stesso Hegel avanza nel paragrafo "destinazione, costituzione e limite" della Scienza della Logica (ib., op.cit., pp. 119-128). Fra punto, linea e superficie, fa notare, si dà una continuità indissolubile. Il punto, infatti, non è solo il limite della linea, perché in esso la linea non cessa, ma continua a rappresentare anche il suo fuori: il punto diviene il prolungamento del limite nel verso opposto da cui viene osservato. Parimenti la linea non è soltanto il limite della superficie, come se quest'ultima, nella linea, sia soltanto destinata a cessare, ma distende la linea sino a farsi faccia di un solido. Quando "si immagina la linea come illimitata da tutte e due le parti (o, secondo l'ordinario modo di esprimersi, come protratta all'infinito), il punto costituisce il suo elemento come la linea costituisce l'elemento della superficie, e la superficie quello del corpo. Questi limiti sono il principio di quello che essi limitano, come l'uno, per es., in quanto centesimo, è limite, ma anche elemento dell'intero centinaio" (ib.,op.cit., p. 127).
Adottando il punto di vista dialettico, che non oscilla solo da un estremo all'altro, ma anche dall'altra parte dell'estremo, diviene chiaro come il punto sia il farsi dialetticamente linea, la linea ciò che si fa dialetticamente superficie, e così ancora e ancora sino ad arrivare al corpo. Punto, linea o superficie, presi come momenti in sé dello sviluppo, sono in realtà il prodotto di un "movimento" non ritenuto mai accidentale o immaginario, ma nel quale le determinazioni finite da cui il punto, la linea o la superficie dovrebbero sorgere, divengono esse stesse principi di cominciamento. E viceversa. Hegel lo ribadisce subito: "principi i quali nello stesso tempo non sono altro che i loro limiti". Lo sguardo dialettico non si arresta mai al punto focale, ma lo sdoppia immediatamente, in modo tale che il medesimo appaia sia limite che principio. Il punto è infatti un limite per nulla astratto, ma appartenente a un esserci inteso inizialmente nella sua semplice indeterminazione. Questo è anche il motivo per cui finiamo per credere nell'esistenza di uno "spazio assoluto". Assoluto significa ab-solutus, sciolto da. Qualunque cosa, oggetto o realtà appaia in sé, cioé "sciolta da", appare in tal modo solo perché il nostro sguardo non riesce a cogliere ancora il continuo esser fuori ("l'un dell'altro") del suo limite: preso da una prospettiva il limite è il fuori del qualcosa, preso da un'altra il qualcosa è il fuori del limite, ma altro non sono che differenti facce del medesimo.
Nel suo linguaggio aggrovigliato, che restituisce quasi materialmente lo sforzo di piegare e ripiegare il dato affinché si mostri nulla più che essere, Hegel insiste a ripetercelo.
"Essendoché il limite non è negazione astratta, ma negazione in questo esserci, epperò determinatezza spaziale, da ciò risulta che è spaziale anche il punto, la contraddizione della negazione astratta e della continuità e quindi il passare e l'essere passato nella linea etc., come poi anche risulta che non si danno punti, e nemmeno linee, né superficie. Il qualcosa posto col suo limite immanente come la contraddizione di se stesso, dalla quale è indirizzato e cacciato oltre a sé, è il finito"
(ib., op.cit., p.128).
In questo passaggio, tanto complesso quanto fondamentale, emerge la duplicità di lettura cui è soggetta la dialettica del punto. Da una parte appare sin troppo chiaro che punto, linea e superficie sono il prodotto della continuità del movimento di cui ogni essere è partecipe, l'ininterrotto divenire della vita. Dall'altra, rapportandoci a questo divenire dialettico dalla prospettiva soggettiva dell'esserci (del nostro essere situati nel flusso della vita, in quanto punti-limite soggetti all'accidentalità e all'immediatezza), la determinatezza spaziale del punto, della linea e della superficie dipende soltanto dalla parzialità del nostro sguardo non ancora mediante. Uno sguardo che si ferma cioé a quanto è immediatamente dato, finendo per frammentare la realtà in singole oggettività e costituirle come "in sé", come "punti finiti" di uno spazio fatto nient'altro che di infiniti punti.
In quanto modalità del vedere e del far vedere altrimenti, la trasgressione si rivela essenzialmente un problema di percezione dello spazio e del tempo. Ancor meglio, è percezione dello spazio, che si configura in un modo o nell'altro in funzione del come viviamo il tempo. Benché il divenire, preso nella sua dimensione temporale, non abbia in sé nulla di trasgressivo perché puro continuum dialettico, appare inevitabilmente soggetto a "manifestazioni trasgressive" dipendenti dalla nostra finitudine, dal limite della nostra percezione. Siamo dunque condannati a trasgredire qualunque cosa si offra sotto forma di determinato? (continua 2.6)