I bilum di sorella Papua (5/7)
Le borse cordate non rappresentano solo l'artefatto femminile più diffuso sull'isola, ma nei loro nodi e intrecci rivive una complessa gerarchizzazione dei rapporti sociali fra sessi, messa in discussione dal successo di alcune donne artiste in Occidente.
Se il rapporto di fratellanza -basato in particolare sulla distinzione tra fratello maggiore e minore -rappresenta a Papua un modello microcosmico di socialità per spiegare l'origine, così come la distinzione dei poteri (Power or paradise? : Korafe christianity and Korafe Magic, Elisabetta Gnecchi Rusconi, 1991), il rapporto fratello-sorella è altrettanto fondamentale per definire il ruolo femminile complementare, o talvolta sostitutivo, all'interno di una società patrilineare.
Per l'antropologo André Iteanu, il du (cioé la coppia fratello-sorella) sta infatti alla base di tutti i rituali che coinvolgono scambi cerimoniali fra persone affini, perché entrambi i membri concorrono ad articolare le relazioni su un doppio livello: quelle fra uomini, per quanto riguarda gli individui e il villaggio, e quelle fra uomini e spiriti (La Ronde des Échanges : de la circulation des valeurs chez les Orokaiva, Cambridge University Press, 1983).
Differenziazione sessuale
Indipendentemente dalle differenze di età, tra i Korafe le sorelle chiamano i fratelli col termine generico ruka, mentre i fratelli possono usare la parola ghasovu per indicare ognuna delle loro sorelle. Finché sono bambini, entrambi i sessi giocano insieme liberamente, ma non appena in grado di aiutare in famiglia, i ruoli cominciano a definirsi: i fratelli assistono il padre nel tagliare le piante delle aree coltivabili, le sorelle si occupano di sradicare le erbacce e raccogliere i resti lasciati sugli appezzamenti. O ancora, i fratelli apprendono l'arte di costruire le canoe e le case, l'arte della pesca e della caccia, le sorelle a cucinare il cibo procurato e realizzare accessori quotidiani. Per quanto riguarda i maschi, è sempre il fratello maggiore che deve assimilare la conoscenza del padre al punto tale da sostituirlo, assumendone infine il ruolo in famiglia e distinguendosi così dal fratello minore, in posizione dipendente circa la condivisione del patrimonio, ma anche in diritto di essere protetto. Il possesso della conoscenza si accompagna allora al potere e all'autorità, oltre che alla responsabilità sociale verso tutti quanti mancano di tale conoscenza, comportando però la possibilità di gelosia e rivalsa da parte del fratello minore.
Come evidenzia Elisabetta Gnecchi Ruscone (op. cit., cap. Brother and sister relation), quando maturano propensioni sessuali, i maschi sono invitati a rivolgere i loro interessi fuori dal villaggio e dalla cerchia familiare, dal momento che i poteri acquisiti attraverso la vicinanza intima fra sessi possono rivelarsi nocivi per le femmine dello stesso ceppo (idealmente, gli amanti possono cominciare a dormire insieme, ma non ad avere rapporti carnali). E' idea comune che l'eventuale contaminazione di una sorella col potere del fratello sia in grado di danneggiare il sistema riproduttivo. Fra le prove, gli eventuali dolori addominali durante il menarca: segno che una ragazzina potrebbe essere entrata in contatto con la magia acquisita dal fratello. Conseguentemente le abitazioni dei due sessi iniziano a essere divise e le funzioni sociali a rimarcare ambiti di competenza sempre più specifici. Fra le attività prettamente femminili, spicca la realizzazione di accessori per la quotidianità che implica un sapere pratico trasmesso di generazione in generazione, ma anche una componente di creatività individuale in grado di sovvertire gli equilibri tradizionali della vita di comunità.
Una corteccia dura a morire
Grazie a uno studio pionieristico dell'antropologo John Barker sul popolo Maisin di Collingwood Bay, nel sud-est di Papua Nuova Guinea (Ancestral Lines: The Maisin of Papua New Guinea and the Fate of the Rainforest, Toronto University Press, 2008), è stato possibile comprendere come la capacità delle donne di realizzare tapa, vestiti di corteccia compattata e decorata (solitamente Broussonetia papyrifera), abbia permesso non solo di mantenere vivo il contatto col passato nell'epoca globale, ma di fornire anche mezzi di sussistenza alternativi alla concessione dei diritti di sfruttamento sulle foreste primarie, ridefinendo così il ruolo sociale dei sessi.
Il territorio delle nove comunità costiere, che consta di circa 3mila abitanti e copre una superficie di 263mila ettari, è diventato dal 1995 un'area di forte interesse per lo sviluppo di coltivazioni da palma da olio e per il taglio commerciale del legname, sebbene solo un anno prima la Dichiarazione Maisin avesse messo ben in chiaro la posizione degli abitanti locali: "Ci opponiamo in modo fermo e unanime alle devastanti attività di taglio su scala industriale, così come alle attività agricole che prevedono la deforestazione di ampie superfici in qualsiasi parte della terra tradizionalmente custodita dal popolo Maisin". Parole cadute nel vuoto.
Stando a un report dell'ufficio esecutivo delle Nazioni Unite in Papua Nuova Guinea (Saving Maisin's traditional forest land and supplies), già nel 1998 un investitore malese era riuscito a ottenere il controllo di 38mila ettari di terra tramite accordi fraudolenti con singoli individui, anziché con i rappresentanti della comunità. Quasi un atto di guerra, cui i Maisin hanno risposto trovando il supporto e la collaborazione dell'ong Conservation Melanesia, grazie alla quale sono riusciti a internazionalizzare il loro appello di difesa, a unire le proprie comunità nell'Associazione Maisin per la Conservazione e lo Sviluppo Integrato (MICAD) e, soprattutto, a far conoscere al mondo l'unicità delle tapa prodotte. Un vero e proprio punto di svolta nella salvaguardia del territorio.
Mani di donna
Il processo di lavorazione è stato descritto dettagliatamente nell'opera di John Barker (op.cit.), partendo dalle prime osservazioni dell'antropologo agli inizi degli anni '80 del secolo scorso. "(Mildred) tagliava una striscia di corteccia da un albero più vecchio e spesso di wuwusi (la Broussonetia papyrifera, preferita al più originario Ficus tinctoria, ndr), quindi legava rametti di scarto in un'intelaiatura rigida, in modo tale che questa servisse da tutore su cui far leva col concorso di un alberello di wuwusi bello dritto. Con grande abilità grattava poi via la corteccia esterna mediante un coltello e tracciava un taglio per tutta la lunghezza del rametto, forzando la spessa corteccia interna, dal colore bianco lattiginoso. In seguito avvolgeva la striscia di corteccia su se stessa, lasciando esposta la superficie grattata, ma proteggendo al contempo dalla sporcizia la vivida superficie interna e stringendo il fascio con un'altra striscia di corteccia...la parte grattata si asciugava velocemente e aveva perciò bisogno di essere battuta in un paio di giorni per dar forma al vestito" (ibid., p.42).
Grazie ad alcuni workshop delle delegazioni Maisin, ospitati negli Stati Uniti, in Giappone, in Australia e Nuova Zelanda, fondi a sostegno di quest'antica pratica hanno iniziato a confluire verso le comunità locali, permettendo di mantenere in vita le tecniche tradizionali contro la diffusione dei vestiti industriali. Le visite organizzate hanno gradualmente permesso di generare piccole fonti di guadagno alternative alla malvoluta cessione di diritti sullo sfruttamento delle risorse territoriali. Forti del favore incontrato a livello internazionale, i Maisin sono infine riusciti a ottenere nel maggio del 2002 la restituzione dei pieni diritti di usufrutto della propria terra, attraverso una storica sentenza della Corte Nazionale della Papua Nuova Guinea.
Il filo delle borse cordate
Fenomeni analoghi sono stati indagati dall'antropologa Elisabetta Gnecchi Ruscone (Bilum, Bilas, Bilumwear. PNG Women Loop Stylish Dresses to Create New Identities, ZoneModa Journal, Vol. 9, n.2, 2019) in riferimento alla produzione dei tappetini di pandano (Amotmot/Awoiwoi) e delle tipiche borse cordate papuane (bilum), utilizzate per il trasporto di beni quotidiani, tanto quanto per doni destinati a sancire scambi informali e legami sociali o spirituali (iniziazioni, matrimoni, cerimonie mortuarie...). Queste ultime, in particolare, "sono l'accessorio più lavorato della vita quotidiana in Papua Nuova Guinea - evidenzia Maureen MacKenzie in "Androgynous objects" - Ci si può imbattere in dimensioni e forme fra loro molto diverse, dal borsone domestico dotato di un'apertura circolare larga e flessibile ad amuleti con un imbocco grande quanto la punta di un dito. Il bilum è tradizionalmente ottenuto da anelli interconnessi di fibre di corteccia filate a mano in una corda a due strati, praticamente indistruttibile Ogni borsa è completata da un unico filo, poiché il fabbricante, di solito anche se non sempre una donna, aggiunge alternativamente allo spago facendo filare più fibre contro la coscia, e quindi utilizza la nuova lunghezza per costruire ulteriori anelli della borsa".
Al di là della loro funzione utilitaria, il significato simbolico dei bilum emerge anche nelle mitologie locali in cui spiriti femminili portano sempre con sé borse cordate, in quanto incorporazione della potenza rituale che rappresenta la conoscenza culturale. L'identità di genere diviene perciò una connotazione "fatta", più che "espressa" dalle azioni di una donna. Chi ha scelto di adottare fibre sintetiche colorate nei bilum prodotti dagli anni '80, ha finito inoltre per rafforzare il prestigio di alcuni uomini rispetto ad altri durante i raduni rituali sulle Gahuku Eastern Highlands, spingendo a cercare soluzioni sempre più creative. I nuovi materiali permettono infatti di risparmiare tempo per la produzione dei fili, aggiungere nuovi motivi alle forme tradizionali (come l'albero di Natale, l'uccello del Paradiso, il tamburo kundu...), differenziare le tipologie di borse a seconda del contesto in cui queste sono utilizzate.
"Le innovazioni negli stili bilum - spiega Elisabetta Gnecchi Ruscone (op.cit.) - non sono che un esempio della creatività culturale emersa dagli scambi e dalle relazioni fra differenti tradizioni e culture, dell'abilità di articolare il fuori e il dentro, il globale e il locale, che esprime la vitalità di molte società contemporanee dell'Oceania".
Questa sorprendente capacità di contaminazione è stata quindi notata e presa a modello nel 1995 dalla designer italo-australiana Sharon Brissoni, che ha dato vita a un primo team di 11 donne divenute il cuore produttivo del marchio Momi-ModaMilan. Organizzatesi secondo un modello di lavoro basato più sulla cooperazione che sull'individualità, hanno così potuto rafforzare e rivoluzionare il loro potere all'interno della società tradizionale, giungendo a creare una vera e propria nuova classe urbana. Fra le designer contemporanee più conosciute, Florence Jaukae e Kathy Kata sono riuscite a raggiungere addirittura palcoscenici internazionali quali l'esposizione "Hailans to Ailans" del 2009 a Londra, o l'Honolulu Biennial del 2019.