4.3 L'era delle eterotopie
Al soggetto scisso della contemporaneità corrisponde uno spazio di vita a sua volta contraddittorio, attraverso il quale prende forma una "geometria estetica" tanto difficile da dominare, quanto efficace per contrastare potere e controllo
(se non letto prima, si rimanda al post "4.2 Senza spazio, l'utopia muore")
Abituati da secoli alla rassicurante geometria dell'estensione, fatichiamo a rapportarci agli spazi contemporanei della dividualità. In qualche modo, questi risultano legati a tutti gli altri, ma li contraddicono pure, essendo in costante smantellamento. Godono della curiosa proprietà di essere in relazione con i luoghi, in una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l'insieme dei rapporti da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati: la nuova idea di spazio, nell'era della dissoluzione del soggetto, emerge come incrocio di fasci in continua proliferazione.
"Il centro è quello in cui convergono le linee, è fatto dal confondersi degli angoli, composti dalle rette che indicano le variazioni della sostanza e formano i coni delle diverse prospettive...strano genere di unità sostanziale, si potrebbe aggiungere, perché appare già chiaro da ora che non vi è unità se non come ripiegamento delle varie molteplicità, non vi è sostanza se non nelle infinite modificazioni dei suoi accidenti, non vi è relazione se non come differenza interna e ripiegata su di sé"
(R. Fabbrichesi Leo, I corpi del significato, Jaka Book, Milano 2000, p. 59)
La tradizione occidentale è riuscita a offrirne una rudimentale descrizione confrontandosi giusto con l'utopia, lo spazio privo di un luogo reale, ovvero lo spazio che sembra intrattenere rapporti di analogia diretta e rovesciata con lo spazio reale della società. Ma l'utopia, sovraccarica di significati storici, cede a messaggi di consolazione che trascendono, messianicamente, ciò che oggi è precluso. Serve, al contrario, la ricerca di un'immagine che affondi le proprie radici nell'effettualità storica, nella realtà concreta del quotidiano.
"Ci sono anche, e ciò probabilmente in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell'istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all'interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili. Questi luoghi, che sono assolutamente altro da tutti i luoghi che li riflettono e di cui parlano, li denominerò, in opposizione alle utopie, eterotopie"
(ibidem, p. 24).
Ancora una volta, Foucault torna all'esempio dello specchio come "sorta d'esperienza mista", come luogo senza luogo: lo specchio è per noi lo strumento primo della rappresentazione, della duplicazione, è la simbolizzazione del concetto classico di verità come "adequatio intellectus rei". Nello specchio mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre "virtualmente" dietro la mia superficie; io sono là dove non sono, una specie d'ombra che mi rimanda la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi là dove sono assente. Dunque utopia dello specchio. Ma anche eterotopia dello specchio, nella misura in cui lo specchio esiste realmente, e dove si sviluppa, nel luogo che occupo, un effetto di ritorno.
"Lo specchio funziona in questo senso come un'eterotopia, poiché rende questo posto che occupo, nel momento in cui mi guardo nel vetro, che è assolutamente reale, connesso con tutto lo spazio che l'attornia ed è al contempo assolutamente irreale poiché è obbligato, per essere percepito, a passare attraverso quel punto virtuale che si trova là infondo"
(ibidem, p. 24)
Stando alla terminologia di Un sapere così crudele (M. Foucault, in Scritti letterari, op. cit.), lo specchio è allora il luogo in cui si mettono in gioco la "prova del Limite" (connessa al problema delle enunciabilità) e la "prova della Luce" (a sua volta connessa al problema delle visibilità). Attraverso il gioco delle sue linee, lo specchio può inoltre sorvegliare da lontano. Vale a dire: offrire tutto allo sguardo senza lasciare presa su di esso, un'inversione parodica della coscienza. Nella sua modalità ravvicinata è invece uno sguardo truccato. Il guardante si situa surrettiziamente nella camera oscura che lo stesso specchio contiene; si inserisce nell'immediata compiacenza di sé. Si situa là dove il volume chiuso del corpo viene ad aprirsi, ma per richiudersi subito dall'altra parte di quella superficie che egli abita rendendosi quanto meno spaziale possibile; "astuto geometra, ludione a due dimensioni, ecco che inserisce la sua invisibile presenza nella visibilità del guardato da se stesso" (ibidem, p. 48).
E ancora:
"Riflette. Nient'altro. Ma è appunto qui la scappatoia assoluta dell'osservato. L'uno, osservando, non sa, in fondo, che si vede; l'altro, non sapendosi guardato, ha l'oscura coscienza di essere visto. Tutto è organizzato da questa coscienza che è al tempo stesso a fior di pelle e al di sotto delle parole. Dall'altra parte dello specchio si è soli e ingannati, ma di una solitudine così vigilante che la presenza altrui è mimata nella concavità dei gesti i quali, permettendo di difendersene, piamente, paurosamente, l'invocano. Così, sulla superficie d'incontro, sulla spiaggia liscia dello specchio, si compone in un incanto fermato per un attimo, il gesto-limite per eccellenza che, mettendo a nudo, maschera ciò che svela"
(ibidem, p. 49)
Vedremo più avanti come la metafisica dello specchio serva a Foucault per demolire la nozione tradizionale di spazio dandogli modo di rifuggire dalla trappola delle dualità dialetticamente polarizzate (dicibile/indicibile, visibile/invisibile, prossimità/distanza, reale/immaginario...) e di descrivere una macchina semiotica dalle "congiunzioni" contingenti. Destituendo del carattere di necessità ogni realtà "data", Foucault delinea uno spazio specifico a ogni dispositivo di assoggettamento e controllo, enucleando formazioni discorsive, e non, che le danno vita. È in questo senso che bisogna leggere la serie di scritti letterari in cui il filosofo francese non solo "misura" i testi studiati, ma anche interpreta la scrittura come luogo attivo di dispersione del linguaggio, in cui la possibilità del testo è data proprio dalla distanza che non cessa di scavarlo aprendolo all'infinito.
"Occorrerebbe sostituire al lessico dell'intreccio il vocabolario della distanza e lasciar vedere, quindi, che la finzione è una distanziamento specifico del linguaggio, un distanziamento che gli è interiore, ma anche che lo dispiega, che lo disperde, lo ripartisce, l'apre"
(M. Foucault, Distance, aspect, origine, "Critique", n.198, nov. 1963, in Dits èt Ecrits, cit., vol.I, p. 280)
La discontinuità segna non solo lo spazio e il tempo, ma anche il loro rapporto, non più "struttura geometrica della simultaneità" (M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, trad.it. SE, Milano 1993, p.61), ma nodo topologico che sovverte l'elemento euclideo. Michel Serres è stato indubbiamente fra i primi ad intravedere in Foucault la "geometria estetica" dei "bordi del pensiero emarginato" (Le retour de la Nef, 1966, in Hermes I. La communication, Minuit, Paris 1969, p. 192), precisandola come luogo primario e radicale del pensare, ossia dell'essere. Tale geometria, tuttavia, si alimenta di nozioni inequivocabilmente non euclidee, come evento o serie, irriducibili al paradigma classico che rinchiude lo spazio fisico di unicità, neutralità e stabilità, laddove Foucault non fa altro che istituire linee di fuga e di instabilità che aprono al gioco di dissolvenze-dissoluzioni come metamorfosi qualitativa di configurazioni altre; quasi a voler connettere serie di molteplicità disomogenee, quasi a voler coniugare elementi eterotopici appartenenti sia a uno stesso campo di oggetti o di eventi, sia fra campi differenti fra loro, così da sperimentare un effetto di congiunzione disgiuntiva sotto mutato contesto.
Le eterotopie sono dunque luoghi di contestazione dello spazio chiuso in cui viviamo, soggetti a mutamento e scomparsa, ma inevitabilmente prodotti da nuclei di resistenza al potere-disciplinare prima, al potere-controllo oggi. All'interno del breve scritto Spazi altri, Foucault offre solo alcuni indizi per avviarne uno studio analitico, citando come esempi il collegio, il servizio militare, il cimitero, ma anche il teatro o il cinema, o ancora il giardino. In ogni caso, le eterotopie hanno sempre caratteristiche peculiari, riscontrabili in ogni periodo storico della loro "apertura":
- hanno il potere di giustapporre, in un unico luogo reale, diversi spazi, diversi luoghi che sono fra loro incompatibili;
- sono connesse molto spesso alla suddivisione del tempo: ciò significa che aprono a quelle che si potrebbero definire, per pura simmetria, delle eterocronie;
- presuppongono sempre un sistema di apertura e di chiusura che, al contempo, le isola e le rende penetrabili;
-sviluppano, con lo spazio restante, una funzione: creare uno spazio illusorio che indica, come ancor più illusorio, ogni spazio reale (eccezion fatta per le così dette "eterotopie di compensazione", che creano un altro spazio, uno spazio reale, così perfetto da far apparire il nostro come disordinato, maldisposto e caotico).
In particolare, dobbiamo notare come l'eterotopia cominci a funzionare appieno quando gli uomini si trovano in una sorta di "rottura assoluta", di "profonde rapture" con il loro tempo: straordinari, a riguardo, i saggi che Foucault dedica alla pittura di Manet, alla letteratura di De Sade o di Bataille, all'opera enigmatica di Magritte, alle stravaganza di Raymond Roussel.
L'idea di unire tutto, di costruire un luogo per ogni tempo che sia a sua volta fuori dal tempo, dunque inaccessibile alla sua stessa corruzione, al pari del progetto di organizzare una sorta di accumulazione perpetua e indefinita del tempo in un luogo che non si sposta (il sogno della clonazione, il desiderio di usufruire di un corpo eterno, seppur sostituibile, mantenendo la stessa mente...), tutto ciò appartiene indubitabilmente alla nostra modernità. Il rifiuto del movimento e della corruttibilità, tuttavia, è anche ciò che porta l'eterotopia a evolvere in distopia. Anziché lo specchio o il metaverso, insieme a Foucault preferiamo ritenere la nave l'eterotopia per eccellenza, l'anello di giunzione ideale fra la nostra modernità e la contemporaneità:
"la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all'infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge sino alle colonie per cercare nel loro giardino ciò che hanno di più prezioso...[è] il più grande serbatoio d'immaginazione. La nave è l'eterotopia per eccellenza. Nella civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l'avventura e la polizia i corsari"
(ibidem, p.32)
Le "navigazioni" in Internet, loro malgrado, evocano una tradizione di pensiero assai più profonda di quanto sia solita supporre l'attualità. A suo modo, Foucault si è fatto partecipe della massima invenzione simbolica di Arthur Rimbaud: il poeta identificatosi in un battello senza equipaggio, che amava abbandonarsi alla corrente di "fiumi impassibili" (simbolizzazione dei flussi di potere) e liberarsi andando alla deriva per gli oceani, danzando sui flutti "più lieve di un turacciolo", sino a immergersi nel "poema del mare". È a questa vis poetica che Foucault sembra fare appello, dal momento che chi ha raggiunto l'ignoto e ha "visto quel che l'uomo ha sognato", deve sempre far memoria - archiviare, direbbe il filosofo di Poitiers. La ragione è semplice: "quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste!" (da Lettera del veggente).
Simili visioni si dischiudono in spazi e tempi che sono fuori da ogni ordine naturale, compongono un mondo di cose e forme viventi straordinarie, impensate, e si svolgono in scenari inverosimili, benché apparentemente reali. Nulla d'indefinito e di vago caratterizza i regni di questa avventura: i fenomeni più incredibili sono generati dalla condensazione e dalla trasformazione di elementi concreti, si offrono interamente ai poteri dei sensi che, nell'esaltarsi, finiscono poi straziati, estenuati in un'esperienza di deragliamento. Il "vigore" che il poeta invoca ne "il battello ebbro" è proprio questo potere dei sensi che si esaurisce ("È in queste notti immense che tu dormi?"): l'esperienza inaudita non può essere sostenuta a lungo. Occorre rientrare nei limiti della realtà, nello squallore della vita quotidiana (la trasgressione non crea alcuna positività sostitutiva: funge solo da rottura): il nostro battello deve tornare ai porti tranquilli. Eppure, anche questo risulta impossibile per chi ha visto "arcipelaghi siderei" e "isole dai cieli deliranti, aperti al vogatore" (il potere-controllo non può mai chiudersi definitivamente su se stesso, come invece si supponeva erroneamente nelle forme processuali del potere-disciplinare).
Oggi il battello ribaudiano, o la nave foucaultiana, possono però desiderare solo uno spazio acqueo assai meno evocativo: la "pozzanghera nera e gelida" in cui un bambino, "pieno di tristezza", abbandona la sua barchetta di carta nell'ora del tramonto. Nella nostalgia per il balzo verso l'ignoto (nel "poema" dei fiumi e degli oceani), il poeta - al pari del filosofo - può sentirsi vicino solo al fanciullo, il quale affida la propria capacità di fantasticare e di sognare al gioco della barchetta "leggera come una farfalla a maggio".
È ancora Rimbaud ad aiutarci a visualizzare sempre meglio questa potente trasgressione: per quanto ebbro, il poeta-battello conserva il ricordo dei bambini. A loro vorrebbe infatti mostrare "le dorate/dell'onda cupa e azzurra, o quei pesci canori". Il bambino, forse, non è che l'immagine della società a venire, del domani non ancora sbocciato, della filosofia di una vita altra. Del gioco che eternamente si rinnova, specchiandosi nella pozzanghera della conoscenza. O tutto questo, ancora una volta, è solo la nostra illusione? (continua 4.4)